Andrea Sabatini da Salerno è sicuramente uno dei rappresentanti più felici e originali del primo Cinquecento. La sua storia non è semplice, tantomeno lineare: Andrea fu conservatore e innovatore insieme. Dove per conservatore s’intende l’alternanza di registri diversi e perciò, pur di restare in sintonia col pubblico, la persistenza di formule di compromesso come polittici e fondi oro e per innovatore la svolta epocale che impresse all’arte della sua terra, traghettandola dal Quattrocento gentile al Cinquecento della Maniera moderna. Il pittore ne elaborò un’edizione locale di sicuro successo, tanto da meritare l’appellativo di Raffaello del Sud per l’associazione tra il suo portato a Napoli e quello del Sanzio a Roma.
Non è un caso che proprio sul nome del Sabatini si pensò di convogliare la riscoperta di un’intera stagione nella mostra Andrea da Salerno nel Rinascimento meridionale – la prima sul tema – a Padula nel 1986. La vicenda storiografica del pittore ben si prestava, con i suoi continui sbalzi, a fare da esempio delle difficoltà della ricerca sull’arte meridionale. Appena un decennio prima Giovanni Previtali (poi curatore dell’esposizione) aveva sollecitato una nuova stagione di studi in uno degli interventi più significativi della sua anima meridionalista sul terzo numero della rivista «Prospettiva». Disegnando un circolo vizioso che dalla sprezzante indifferenza di Giorgio Vasari in poi poco aveva risparmiato alla figurazione fiorita nelle province meridionali, lo storico dell’arte esprimeva il disappunto per la sopravvivenza di certi pregiudizi. Al tempo dell’insegnamento universitario a Messina e Napoli, gli si era offerta una realtà inspiegabilmente disintegrata dal resto della penisola. Il patrimonio artistico versava nel più desolante degrado (a stento mitigato dall’impegno dei singoli), tra opere abbandonate oppure, se scampate alla dimenticanza, avvilite da acconciature grossolane che ne avevano consumato la bellezza.
Da qui si era convinto che soltanto un nuovo orientamento avrebbe invertito il senso della corrente. Poco importava se il panorama di nomi e personalità era tutto da costruire. Contro la congiura neanche troppo casuale del tempo, occorreva agire quanto prima; abbandonare ogni timore di fraintendimenti, anche a costo di sacrificare comprensibili ambizioni personali in nome di un servizio civile più alto. Tutto pur di liberare un’intera porzione d’Italia del concetto degradante di periferia conservatrice e gretta.
Previtali e la mostra di Padula
I risultati di questo ripensamento non tardarono a venire e già nella mostra di Padula fu chiaro che la partita si era riaperta. Ci si rese finalmente conto che la civiltà artistica del Sud Italia si era sviluppata secondo accenti del tutto peculiari, a volte alternativi, a volte integrati al resto del Rinascimento. La fase pionieristica poteva dirsi conclusa, si erano poste le basi per un ripresa d’interesse duratura e rinnovata.
Alle complicate vicende di Andrea Sabatini, e indirettamente al clima di cui è diventato in un certo senso capofila, è dedicato il libro di Pierluigi Leone De Castris, Andrea Sabatini da Salerno, il Raffaello di Napoli (Arte’m Editore, pp. 240, € 40,00). Leone De Castris offre al pubblico la prima monografia sull’artista, costruendo un itinerario narrativo sul filo delle ipotesi e delle interpretazioni che recupera puntualmente la sua parabola professionale. Scorrendone le pagine e le tante illustrazioni siamo portati a misurare meglio la qualità espressiva del pittore. Inevitabile accrescerne l’ammirazione.
Uno squarcio sul periodo iniziale del Sabatini ce lo offre il trittico della chiesa di Sant’Andrea a Teggiano. Nella sua traccia più antica sorprendiamo l’artista ancorato a predilezioni di tipo arcaico, non molto oltre le influenze umbro-fiorentine di Perugino e del Pinturicchio che avevano animato i suoi maestri: la Madonna con Gesù Bambino e i santi, figure ideate in modo rigorosamente corsivo, spiccano sull’accuratissima trama dorata. Non fosse per la firma e la data, faticheremmo a pensare il dipinto come l’opera del maestro moderno che Andrea sarebbe stato.
La consapevolezza della necessità di misurarsi con qualcosa di diverso e uscire dalle secche del ristagno autoctono il pittore dovette maturarla abbastanza presto se già nelle opere a venire, in modo graduale ma ineluttabile, cominciò a presentarsi in una veste più adatta al suo status generazionale. Si crede che questa transizione – documentata dai polittici della chiesa di San Giacomo Apostolo a San Valentino Torio e della Pinacoteca provinciale di Salerno (già nella chiesa di Sant’Antonio a Buccino) – dipenda da un confronto diretto con la cultura artistica della Roma di Giulio II e da un altrettanto ipotetico giro tra l’Umbria e la Toscana. Da quel viaggio Andrea avrebbe ricavato le fondamenta che avrebbero accompagnato per sempre la sua ispirazione. La povertà documentaria non nega, né conferma questa occasione e forse, nell’impossibilità di dare una risposta definitiva come nel caso analogo del Correggio, poco interessa stabilirne la verità. Importa invece riconoscere che dalla culla della Maniera moderna derivò la svolta del pittore e del Mezzogiorno intero.
Momenti decisivi per la crescita ulteriore del Sabatini furono quelli che lo videro intavolare un dialogo proficuo con gli artisti di passaggio a Sud. Il volume delinea la rete di incontri che lo impressionarono verso nuove visioni, riservando a Cesare da Sesto un posto chiave. Leone De Castris definisce rapporti stringenti tra i due, ipotizzando un incrocio più che occasionale dei pensieri figurativi dell’uno con l’esecuzione pittorica dell’altro. L’impressione di una sostanziale immedesimazione acquista maggiore peso quando si considera la notevole quantità di pitture che a cadenza periodica transitano dal catalogo dell’uno a quello dell’altro, in una direzione o in quella opposta. Rientra in questo gioco interpretativo l’Adorazione dei pastori (già nella Collegiata di San Michele Arcangelo a Solofra) che soltanto sette anni fa era stata riammessa nell’orbita di Cesare. Ora De Castris, ritornando a un filone più antico che risale a Ferdinando Bologna, la riporta ad Andrea: pur nell’ambito di una traduzione più meccanica, risiederebbe in essa il momento di più intimo legame tra i due artisti. C’è da credere che la faccenda non finirà qui.
Apertura su Pedro Machuca
All’altezza del 1517 Andrea da Salerno manifestò l’ennesima intenzione di aggiornarsi, rivelando un’insospettata vocazione per le tendenze dello spagnolo Pedro Machuca. Di quella visione stravagante il pittore si valse nello Sposalizio mistico di santa Caterina d’Alessandria di Nocera Inferiore. Qui la scena si complica di caratterizzazioni eccentriche, suggestionate dalle corde più espressionistiche del Raffaello delle Logge Vaticane: gli angeli giocano a sbucare dalle nuvole fingendo di reggerne il peso, Caterina fissa ipnotizzata lo sposo mistico, a terra fa bella vista una mostra di frutta.
Nelle ultime opere Raffaello, quello classico, tornò predominante nei pensieri di Andrea; l’euforia manierista era definitivamente disinnescata. Un passo in questa direzione lo compiono le tavole per la Cattedrale di Gaeta e l’Abbazia di Montecassino. Commissioni prestigiose che bene si addicevano a un artista affermato e che spiegano, anche a costo di scarti qualitativi, il ruolo sempre più incisivo della bottega di cui Leone De Castris traccia profili particolareggiati.
A trent’anni dalla mostra di Padula il percorso di Andrea da Salerno resta frammentario, tante questioni si concludono con un inevitabile punto interrogativo e il suo nome fatica a imporsi nel racconto del Rinascimento italiano. Questa monografia, che non cita purtroppo il giudizio di ammirazione che Antonio Canova riservò all’Adorazione dei Magi nel Duomo di Salerno, rappresenta un importante contributo per un rilancio a livello nazionale dell’artista e del Rinascimento Meridionale.