L’atto di portare alla luce ciò che è sepolto sotto la superficie del presente è forse la metafora più diffusa per riferirsi alla facoltà del ricordo, nella letteratura e nella filosofia ma anche  nel linguaggio quotidiano. Tenendo fede a questo luogo comune, Andrea Canobbio sceglie l’immagine di uno scavo edilizio per l’incipit delle memorie di famiglia contenute nel suo La traversata notturna (La nave di Teseo, pp. 528, € 21,00). Nella ricostruzione dei suoi ricordi, il cantiere della casa di villeggiatura dei Canobbio procedeva con «immensa cautela», insidiato dall’acqua, che una volta  eretta la costruzione avrebbe minacciato le pareti, «facendo fiorire la pittura e staccando l’intonaco». L’iniziale sguardo sullo sterramento coglie in modo perturbante le intrinseche contraddizioni dell’elemento edile che dà fondamento e piena solidità all’edificio, il quale infatti poggia sul vuoto dove avrà sede la cantina, quello spazio nascosto in cui ogni famiglia sistema nella penombra «le cose che hanno smesso di essere fondamentali. A meno che non sia necessario nasconderle perché, silenziosamente, lo sono ancora». 

Evocando la casa-memoria, l’apertura del romanzo genera una serie di attivazioni allegoriche, sia sul piano minimo dell’isonomia domestica – nel quale l’abitazione, il suo contenuto e le sue soglie (stanze, armadi, oggetti, mura, giardini), diventano veri cronotopi della vita passata – sia su quello più ampio dell’architettura e della città, laddove  essa si estende nello spazio della vita sociale, in cui il padre ha lasciato tracce importanti del proprio lavoro di ingegnere. Gli ottantuno capitoli che suddividono il romanzo corrispondono ad altrettanti luoghi della città di Torino, la cui planimetria ortogonale viene ripartita come fosse una scacchiera e attraversata metodicamente dall’autore, nel tentativo di costruire una «macchina della memoria» dal potere distintivo e regolatore: «Volevo far qualcosa per i miei ricordi. Li avevo trascurati, gettati via giorno dopo giorno, … intrecciati, mescolati, amalgamati. Dei miei ricordi avevo paura.» La possibilità di effettuare ordinatamente dei «sopralluoghi» consente di far convergere spazio e tempo, come se il recto spaziale del ritaglio cartografico celasse sempre un verso temporale, in cui ciò che è stato riemerge attraverso episodi minimi e di grande intensità nel ricordo della vita di famiglia. –

Nella prima parte del romanzo, Canobbio persegue il suo progetto, concentrandosi soprattutto sulla figura del padre, investito da un’ironia  che diverte ma ha un  gusto amaro, e sui sintomi della sua trentennale depressione, oggetto di un evidente risentimento edipico. Chiare e distese, le  frasi che si allineano in una  paratassi ordinata, sono continuamente infiltrate da una nota esitante, che ha la funzione di allungare e in qualche modo sabotare la ricerca di cause ed effetti inseguita dalla scrittura tramite frequenti figure di correctio e di dubitatio. Lo stile si incarica, così, di insidiare in modo vitale l’architettura complessiva del romanzo, rivelando quelle falle e quella instabilità che sono proprie del carattere magmatico e confusivo della memoria, dove spazi e tempi si accavallano in modo imprevedibile e aleatorio, secondo una logica altra da quella ossessiva e disciplinante che vorrebbe informare la scrittura. Così, proprio alla fine di questa prima sezione, l’autore si rende conto che «le conclusioni sono consolazioni» e l’essere stentoreamente venuto a capo delle cause della depressione paterna non fa che spostare il problema verso altre figure familiari, in una catena soggetta a  allungarsi a ritroso nel tempo: la madre «stoica» e reticente – il cui ricordo problematico coglie alla sprovvista lo stesso autore –, la nonna materna alcolista, il nonno paterno fascista quasi della prima ora. Mentre viene a galla la questione relativa alle proprie origini, cominciano ad acquisire un senso più chiaro alcuni brani che stentavano a trovare una sistemazione coerente nel testo, come lacerti di un differimento difensivo dell’inconscio autoriale: «Confusamente sapevo di voler scrivere sui miei genitori, anche se nella realtà rimandavo l’impresa ad un futuro molto distante». Sin dalle primissime pagine, infatti, Canobbio inserisce nella ricostruzione della propria memoria alcune letture antropologiche, in particolare di Marcel Griaule e di Michel Leiris a proposito dei  dogon, presso i quali entrambi effettuarono una spedizione etnografica negli anni Trenta. Il lettore si trova dunque di fronte alla  complessa cosmogonia e ai riti della popolazione africana, che entrando in risonanza con la ricostruzione dei ricordi dell’autore,  innescano una interrogazione sulle tracce del passato e sul metodo attraverso il quale si costruisce il senso del  presente. Le due personalità di «Griaule fondatore di civiltà e legislatore» e di Leiris «ribelle e inquieto e veggente», si offrono allora come poli orientativi del lavoro di Canobbio sulla propria memoria familiare, attualizzando in modo del tutto personale l’adagio secondo il quale la filogenesi rispecchia l’ontogenesi. 

Dopo una traversata di quasi cinquecento pagine tra corrispondenze, biglietti, fotografie di famiglia affiancati vertiginosamente alla tradizione dogon, ecco che l’ottantunesimo e ultimo capitolo risolve ex abrupto la questione delle origini, mischiando le lettere d’amore dei genitori a una robusta invenzione romanzesca, che racconta la storia del loro innamoramento durante gli anni della seconda guerra mondiale. Il filo sfrangiato della storia personale si riannoda così teneramente alla genesi della vita dell’autore, individuando l’invenzione come pharmakon che risolve il continuo differimento nevrotico della soggettivazione memoriale: dove finisce il tormentato memoir comincia il romanzo, e con esso la speranza paradossale di un nuovo principio nel passato.