Un tempo sospeso, si direbbe quasi incantato, scandito da una musica che evoca il Mediterraneo, le sue lingue e le sue rive. Sullo sfondo, Genova, amata e vissuta. Ma anche la poesia dilatata della lingua siciliana, i rimandi lusitani di Tabucchi, l’eco di una partitura jazz senza confini.

NELLE DUE INTERVISTE ad Andrea Camilleri che Guido Festinese ha raccolto in Il dio della curiosità (Il canneto editore, pp. 70, euro 9) c’è molto del «maestro di Vigata» – scomparso il 17 luglio dello scorso anno – ma anche dell’autore, tra i maggiori giornalisti, ed esperti musicali del nostro paese. Se l’occasione degli incontri – avvenuti nello spazio di un mese, alla fine del 2015 – era stata rispettivamente l’assegnazione a Camilleri del Grifo, un premio destinato a chi abbia saputo farsi ambasciatore del fascino della città della Lanterna, e la sua partecipazione al festival capitolino «Più libri più liberi», l’approccio di Festinese sembra muovere da un orizzonte simbolico dove musica e letteratura procedono intrecciate, tra rimandi all’autore di «Sostiene Pereira» e al Fabrizio De André di «Crêuza de mä».

Come dalla consapevolezza di uno sguardo rivolto verso lo stesso mare. Genovese, l’autore, incontra chi quella città, e in particolare il borgo di Boccadasse, ha fatto proprio per amore e scoperta, restituendone qualcosa perfino nello scenario dove opera il commissario Montalbano. «L’odore del mare di Genova mi ricordava stranissimamente quello del mio paese. Genova non era casa mia, era l’angolo preferito di casa mia. E Boccadasse la patria nella patria», ricordava lo scrittore, aggiungendo, «questa impressione uguale l’ho provata solo in un’altra città, il Cairo».

L’INTESA TRA I DUE, pare di cogliere nelle pagine del libro, è stata perciò immediata, tradotta in una sorta di divertita complicità.
Forse anche per questo il Camilleri che si racconta, seppur brevemente, in Il dio della curiosità mescola le scoperte letterarie ai ricordi d’infanzia, la «lingua» appresa con il teatro e le «regole» che si è dato trasformando la passione per la parola in un mestiere. «Io sono un uomo curioso – rifletteva Camilleri – non sono uno strucciolero. Alt, fermi, mi spiego. strucciolero è “Ma lo sai che quello è diventato l’amante di…?”. Di questo me ne frego, non me ne importa nulla. Fatti loro. Sono curioso dell’uomo, dell’umanità. Quando passeggiavo stavo con le orecchie che me le sentivo diventare delle antenne per captare le parole degli altri».

Festinese usa le parole di Tabucchi, «l’uomo ha imparato a vedersi e capirsi quando ha imparato a raccontarsi», per chiedere all’interlocutore del senso ultimo del suo lavoro. Camilleri concorda con la frase e replica: «Raccontarsi non è solamente la descrizione minuta, raccontare porta con sé una sfumatura, un alone dentro il quale entra l’ascoltatore. La conoscenza reciproca, più che attraverso la carta d’identità si può fare solo attraverso il racconto di sé rivolto agli altri».

ACCANTO ALLA SCOPERTA e alla curiosità c’è poi il metodo. Autore di più di cento libri, la metà dei quali con al centro il commissario reso celebre anche dalla serie tv – l’ultimo dei quali, Riccardino (Sellerio, pp. 242, euro 14) è uscito postumo quest’estate -, Camilleri ha raccontato a Festinese il suo modo di operare. «Secondo la mia pagina interiore (il racconto) deve essere composto di ventiquattro pagine divise in quattro capitoli di sei pagine. Se già in partenza sento che il racconto può concludersi in questo modo vuol dire che è un racconto che sta riuscendo. Se vado fuori strada, capisco che vado anche fuori misura, e il racconto già non mi sembra buono». Il tutto, aggiungeva, doveva però avere un suo «ritmo» interno. «Quando ancora vedevo, a un certo punto mi rileggevo la pagina ad alta voce e mi ascoltavo… e doveva suonarmi bene».