La scomparsa di Carl Andre a 88 anni in un ospedale di New York segna la fine dell’epopea minimalista americana. Se ne erano andati già da tempo Dan Flavin, quello dei neon industriali composti a terra o su parete con accostamenti cromatici spersonalizzati, e Donald Judd, il più tirannico di tutti e che ha passato lunghissimi anni in uno sperduto luogo desertico del Texas a fabbricare edifici immensi simili alle sue sculture, a loro volta immense e simili ai parallelepipedi inespressivi che disegnavamo a scuola.

Niente ghiribizzi architettonici, ovviamente.

Rispetto agli altri compagni di avventura, Carl era il più umano (si fa per dire) ancorché inflessibile, perché era nato poeta e per tutta la vita ha scritto poesie che erano sculture e sculture che sembravano poesie. Mi apparvero subito bellissime quanto enigmatiche.
L’ho conosciuto a New York nel 1968, la mia prima volta nella città che pulsa giorno e notte. Non avevo mai visto da vicino un minimalista: io esponevo gli artisti della Pop Art, figuriamoci, e ai Minimal, che perseguivano l’inespressività totale e anche l’atarassia, la Pop dava sui nervi, così come tutta la pittura informale.

Carl Andre, “Trabum (Element Series)”, 1960-’77, New York, Guggenheim Museum

Carl Andre aveva «ucciso» la verticalità della scultura e portato l’arte al pavimento con «tappeti» di metalli vari, piombo, rame , alluminio, su cui si poteva camminare. Sono diventato il suo mercante subito dopo, e per molti anni ho esposto le sue scomodissime sculture: a Torino nel 1970, e poi a New York, dove sono stato al suo fianco fino al 1985. Lo vedevo quasi tutti i giorni nella mia galleria a Greene Street, Soho. Incuteva timore.

Poi l’incidente, con la morte della giovanissima moglie, l’artista Ana Mendieta, precipitata dal trentaquattresimo piano dell’appartamento a Mercer Street, nel Village, dove Carl è comunque rimasto sino a qualche mese fa con la quarta moglie, nonostante le guerrilla Girls andassero a manifestare ogni anno davanti alla sua porta.

Il New York Times aveva scritto, creandoci uno sgomento indicibile, che c’era un’«indisputable evidence» che indicava in Carl l’assassino, o comunque il responsabile della tragedia. Non era vero, tant’è che poi non è nemmeno stato rinviato a giudizio. Talvolta le cronache giudiziarie funzionano così, come un tritacarne.

Ana Mendieta, “Untitled (Facial Hair Transplants)”, 1972

Nella fase istruttoria e durante la carcerazione preventiva e ingiusta, due artisti amici, Frank Stella e Claes Oldenburg, si erano offerti di pagare la cauzione di un milione di dollari, certamente eccessiva. Carl, di nuovo libero, si era chiuso in un silenzio che lo avrebbe isolato e tormentato per sempre. Non molto diversamente Ezra Pound, austero prima e anche poi, si ammutolì per sempre diventando ancor più austero dopo l’esperienza del carcere psichiatrico.

Le pochissime volte in cui ho rivisto Carl Andre, mi chiedeva di lasciarlo in pace e soprattutto di non parlare di lui; gli strappavo tuttavia un sorriso recitandogli in inglese l’intera poesia Phlebas the Phoenician dalla Terra desolata di Eliot e lui capiva che io sapevo del suo amore per la poesia.

Aveva scritto anche aforismi e ammonimenti. I due che ricordo meglio: l’uomo scala una montagna perché è lì, l’uomo fa un lavoro d’arte perché non è lì; L’arte serve la rivoluzione, serve il capitalismo, serve entrambi e nessuno dei due.

Per tutta la vita ha indossato un solo abito, una tuta di cotone blu di quelle che usavano solo gli idraulici, e in estate come in inverno calzava degli scarponcini di quelli che usavano gli operai dell’edilizia.

Non era solo un vezzo, Carl odiava la vanità borghese, i compromessi e i tic che ne derivavano: nell’anima, era più comunista di tutti i comunisti che avevo conosciuto, e anche il più intransigente e intollerante.

Con me e non solo, non ha mai parlato di denaro o di prezzi di mercato o «di profitto o perdita», e quando vendevo le sue opere, voleva essere pagato in piastre di metallo, rame, acciaio o alluminio, con cui componeva bellissime geometrie elementari, come quadrati e rettangoli che poi avrebbero invaso i pavimenti di case e musei.

La sua grande personale al Guggenheim Museum l’ha finanziata interamente con le piastre che aveva accumulato negli anni. Non voleva dipendere dalla munificenza delle istituzioni e ha sempre pagato di tasca sua i materiali delle sue mostre, che fossero mattoni, metalli, o blocchi di legno. Penso si sia trattato di una figura leggendaria, di quelle che si vedono solo nei libri: un santo stilita, severo e furibondo, intransigente soprattutto con sé stesso.

Vegetariano e azzardato bevitore di super alcolici (non l’ho però mai visto ubriaco), andava volentieri in Germania a Düsseldorf, dove viveva il suo mercante tedesco Konrad Fischer, il più geniale artista-gallerista e scopritore di talenti, che passava delle intere mezze giornate nella birreria di fianco alla sua galleria a riflettere e a incupirsi attraverso boccali di birra. Anche io andavo spesso a Düsseldorf (siamo alla fine degli anni sessanta) a vedere Konrad che sarebbe poi diventato il mio socio in galleria, prima a Roma nel 1971, poi a New York dal 1975 al 1980. Dopodiché era uscito dalla galleria e non ci saremmo più frequentati: gli dava fastidio la pittura della Transavanguardia e la mollezza delle notti romane, specialmente i bar, più modaioli delle austere birrerie tedesche, dove insieme al fumo c’era anche un senso di disagio per le note ragioni post-belliche.

Frequentando Carl e Konrad ho inferto al mio fegato prove durissime, superate solo per orgoglio. In seguito, non ho più bevuto con la grinta dei miei amici minimalisti; già, perché nel frattempo premevano ai confini quelli dell’arte concettuale e dell’arte povera, e servivano altre energie.

Tempi durissimi per uno come me che era nato per servire non l’arte ma l’arte della pittura, specie quella a olio.