«La pandemia ha intensificato il nostro isolamento sociale, così come ha segnato definitivamente l’abisso socio-economico in cui è precipitata la popolazione in Brasile». Per André Komatsu, artista di san Paolo con radici giapponesi, l’abisso è però una realtà da esplorare. Così, infatti, si intitola la sua mostra romana, inauguratasi presso la sede della galleria Continua al The St Regis Rome (visitabile fino al 16 giugno). La serie di opere proposta nelle sale è stata immaginata appositamente per questa personale, ma si può leggere in perfetta continuità con la poetica resistente dell’artista, impegnato a testimoniare questo complesso e violento tempo attraverso i suoi lavori (che spesso riciclano materiali fragili, poveri, di scarto) e in prima persona, con progetti partecipativi, di attivismo sociale.

Può spiegarci il titolo di questa mostra, «Abyss»?
L’abisso è un concetto che si rivela essere molto utile per decostruire la realtà. Il suo «non avere fondo» può essere connotato in maniera negativa (nessuna speranza), magari rievocare un’atmosfera distopica di oscurità, riferendosi anche al periodo di isolamento sociale dovuto al Covid-19 o, per noi brasiliani, all’esperimento di un governo che ha utilizzato la necropolitica per manipolare, convertire e controllare la popolazione. Allo stesso tempo, l’abisso può rappresentare uno stato opaco, indefinito, in continuo movimento, indicando qualcosa in arrivo. Quando ho pensato al titolo della mia personale, volevo sottolineare proprio questa dualità insita nella parola.

Nei suoi lavori, l’immagine è sovente negata, cancellata, intrappolata, incatenata. Cerca di far trasmigrare nell’arte le pratiche di potere, sorveglianza e controllo?
Parte delle opere in mostra utilizzano queste metafore della negazione per stimolare una consapevolezza sulla realtà nella quale ci troviamo a vivere. Il potere vuole sempre stabilire un controllo sull’altro da sé. Basti ricordare una ristrutturazione urbana come quella di Georges-Eugène Haussmann, nel XIX secolo, a Parigi. O anche quel che avviene nella scuola e all’interno delle famiglie. La riformulazione degli Champs Elysées ha creato una stella di 12 larghi viali in linea retta, con al centro l’Arco di Trionfo: il grande monumento che elogiava le vittorie di Napoleone Bonaparte. Questa nuova griglia urbana in stile militare ha prodotto una strategia per contenere qualsiasi contingenza non gradita al governo, poiché lì potevano essere installati cannoni a lungo raggio. Inoltre, trattandosi di strade estese e rettilinee, fughe e scontri erano quasi impossibili. L’asse disegnato permetteva poi di monitorare rapidamente qualsiasi accadimento, in ogni direzione.
Tuttavia, penso che quelle pratiche si stiano modificando. Oggi il controllo è anche nostro, parlo di autosorveglianza e autopunizione. Dall’«invenzione» dell’imprenditore sotto il manto neoliberista, siamo diventati i carnefici di noi stessi.

«Contrato Social (Il manifesto)», 2023, courtesy the artist e Galleria Continua

Perché nel ciclo «Contratto sociale» usa i giornali come veicolo per oscurare e censurare idee e informazioni?
Il giornale è uno strumento di trasmissione dell’informazione quotidiana, quindi è un elemento fondamentale, una base strutturale per la comprensione della realtà. Ma, contemporaneamente, il giornale ha un logo, un suo nome. Le informazioni contenute sono veicolate secondo l’interesse privato di ciascuno. Il foglio di piombo, invece, che avvolge e isola il giornale come un origami (la tecnica di piegatura giapponese), lo protegge, è uno scudo. Pure in questo caso, gioco sull’ambiguità e la dualità: sicurezza e isolamento, protezione e avvelenamento, informazione e disinformazione, fatto reale e invenzione.

Crede che la pandemia, oltre a cambiare la nostra percezione del mondo, abbia influito anche sulle modalità del suo fare arte?
La pandemia sicuramente ci ha resi più segregati e più suscettibili a essere manipolati. Prima del confinamento, però, ero già impegnato su altri fronti. Dal colpo di stato di Dilma Rousseff nel 2016, ho iniziato a far parte di alcuni collettivi artistici, politici e socio-educativi. L’opera d’arte in sé, schiacciata sulla sua mera produzione, non andrebbe oltre la bolla del suo consolidamento. Con Aparelhamento (2016), abbiamo realizzato diverse azioni contro il golpe e una delle più durature è stata la creazione di una cucina collettiva all’interno dell’Ocupação 9 de Julho (Occupazione del 9 luglio) e della Galeria Reocupa (Galleria Reocupa), uno spazio indipendente, senza scopo di lucro, anch’esso all’interno dello stesso edificio. La realizzazione di un luogo artistico commerciale in un edificio occupato e gestito dal Movimento dos sem teto do centro, ha fornito un sostegno contro il tentativo dello Stato di riappropriarsi dell’area occupata. Le opere sono un «deterrente», fungono da sbarramento legale, dal momento che lo Stato dovrebbe assicurare quelle opere, con costi esorbitanti per l’amministrazione stessa. Abbiamo pensato di utilizzare proprio il mercato e il sistema dell’arte per proteggere un movimento di resistenza abitativa. Durante la pandemia, gestita in quel modo dal governo Bolsonaro, siamo riusciti a raccogliere e distribuire cibo e cesti per la disinfestazione e pulizia destinati a persone considerate vulnerabili (artisti, indigeni, emarginati, cittadini delle periferie).
Nel frattempo, davamo vita ad azioni pubbliche che denunciavano la politica di genocidio dell’ex presidente. Attraverso Ali:leste (2018), con l’obiettivo di sviluppare una rete di connessioni tra il centro artistico-commerciale e l’estremo lembo orientale di San Paolo, abbiamo promosso corsi, circoli di discussione, collegamenti tra persone escluse perché «periferiche» e istituzioni culturali.

Cosa ne pensa del nuovo corso politico del Brasile?
Se avessimo avuto altri quattro anni di governo Bolsonaro non saremmo sopravvissuti. Il nuovo corso, iniziato quest’anno con Lula, ha propiziato la ripresa della democrazia nel Paese. Lula si è dedicato a diverse questioni nazionali e internazionali. Gran parte dell’attenzione si è concentrata sulla riparazione del terribile danno causato dal governo genocida di Bolsonaro, che ha operato facilitando l’ingresso dei cercatori d’oro (i garimpeiros) nell’area di riserva indigena degli Yanomami (nel disprezzo assoluto per loro) e utilizzato la macchina pubblica per interessi privati, al fine di favorire famiglia e sostenitori (settore agroalimentare, esercito ed evangelisti). Così come considero positivo il ripristino di alcuni ministeri (Bolsonaro aveva sciolto quello della cultura e adesso, con l’amministrazione Lula, si sta ricostruendo) e l’intervento nel sistema di diffusione delle fake news.

Lei è un brasiliano di terza generazione di origine giapponese. In che modo l’intersezione delle culture partecipa alla nascita delle sue opere?
Fino all’anno scorso, interpretavo il riferimento alla cultura giapponese solo come un retaggio di famiglia. Ma poi, grazie alla Triennale di Aichi a Nagoya, ho avuto l’opportunità di andare per la prima volta in quel paese e soggiornarvi per alcune settimane. La mia prima impressione è stata quella di un posto completamente diverso dal Brasile, soprattutto da san Paolo. Il flusso delle persone era ordinato, le strade pulite, silenzio e rispetto per gli altri. Tuttavia, pur cogliendo queste differenze, ho rilevato una certa somiglianza, nonostante si esprimesse attraverso meccanismi diversi. Per esempio, la violenza strutturale. La società giapponese è dominata dall’onore, la gerarchia è una forma normativa della società, che abbatte le barriere fisiche stabilendo uno standard di comportamento per tutti. Anche in Brasile, pur non avendo questi standard, viviamo avvolti da una violenza costante, sia essa visiva attraverso le architetture di sicurezza, sia per le disuguaglianze socio-economiche. L’ordine qui da noi è ancora in gran parte determinato dalla costrizione fisica.