«Quello del 4 dicembre non è stato un voto contro Renzi ma il segnale enorme della distanza fra il Pd e il popolo del centrosinistra», per questo si candida, «per rifare il Pd, non possiamo sprecare tutta la strada che abbiamo fatto». Andrea Orlando, ministro di Giustizia, è emozionato, gli occhi azzurri sono lucidi quando rifiuta di essere «il rosso» del «presepe», lui che viene da una famiglia comunista di rito migliorista avverte che non cercherà di rimettere insieme le 50 sfumature di rosso, «compagni io sono di sinistra ma voglio rifare il centrosinistra, senza l’Italia non ce la fa». C’è del berlinguerismo dell’anima quando ammette di avere «un carattere che non mi spinge a candidarmi. Ma penso di saper unire», risponde a quelli che dicono di lui «è bravo ma non combatte». Invece ha deciso di lanciarsi nella missione impossibile, la corsa che Renzi ha già in tasca, il ring dei pesi massimi degli opposti populismi, quello di Renzi che è andato «a ossigenarsi il cervello» nella Silicon Valley e quello di Emiliano alle cozze pelose e che alla stessa ora annuncia di votare per i referendum contro i voucher. Orlando si sfila dalle corde, «non userò mai le parole dei populisti, non delegittimerò l’avversario».

Il circolo Marconi, ex sezione Pci Porto Fluviale, è strapieno. Inzeppato di militanti entusiasti profughi dello scampato renzismo. Sono arrivati anche tanti parlamentari, non solo della ex sua corrente dei giovani turchi (oggi divisa, come tutte a questo giro), l’aria è quella di una riunione di quello che Renzi ha diviso, tutti pentiti ma non troppo: il suo «angelo custode» Daniele Marantelli, l’ex tesoriere Pd Antonio Misiani, l’ex segretario di Roma Miccoli – che è stato il più ’tosto’ contro il commissario Orfini – la sottosegretaria Velo, Vaccari, Covello, Bordo, Ventricello, Pes, Rossomando, Meta. Non c’è il presidente Nicola Zingaretti, ma ha fatto sapere che sta con lui («il partito va cambiato»). C’è invece Maurizio Venafro, ex dirigente regionale dimessosi dopo un’indagine finita nel nulla, che è rimasto nel Pd anche dopo che il suo candidato Enrico Rossi se n’è andato. Per Orlando si sono schierati uomini come Goffredo Bettini, Luciano Violante, Ugo Sposetti, tre ex pci ma che più diversi non si può. Fa appello a ai bersaniani che se ne vanno (ieri l’addio del viceministro Bubbico, oggi forse l’annuncio dei nuovi gruppi)? «Non credo che servano più purtroppo. Ma dobbiamo andarci a riprendere chi se n’è andato a casa». Anche se sa che la sua decisione di correre può stoppare la vena aperta sul fianco sinistro del partito. In tanti gli hanno chiesto di correre per questo, e anche a Renzi questo non dispiace.

Ma al circolo Marconi «tutti presenti». Alle pareti foto di Berlinguer, Moro, Petroselli, una maglietta di Obama e il manifesto con le facce degli iscritti. Sono gli «indomabili», hanno dato filo da torcere al commissario Orfini e sono orgogliosi della loro storia: «Questa sede? Ce la siamo ricomprata tre volte, il partito ce la vendeva e noi ce la ricompravamo», racconta il «compagno Paolucci» mentre occupa una sedia per cederla alla segretaria, Teresa Di Sarcina, come si faceva una volta.

Liturgia semplice e vintage, in linea con gli occhiali Togliatti’s style che il ministro ha scelto. Ma è tutto autentico, il gazebo di plastica sul bellissimo terrazzo, il brindisi a birra e vino (lui declina, la serata è lunga, deve andare in tv) «si stupiscono perché presento la mia candidatura in un circolo Pd, come se avessi scelto un posto esotico, Bali o l’Himalaya». È diverso da Renzi in tutto, nella postura fisica, nel tono della voce, nelle parole, «ho chiesto un congresso che fosse una grande occasione di discussione, di ascoltare il nostro popolo, forse dovevo cercarmi una formula inglese e invece l’ho chiamata ’conferenza programmatica’», Renzi ha detto no, «la farò io nella capitale del Mezzogiorno, a Napoli, dov’è esploso il populismo».

È diverso da Renzi, ma non ne prende troppo le distanze. Se la «casa scricchiola» «non è da oggi ed è responsabilità di tutti», quanto alla stagione del renzismo il principale errore è quello di «non aver spiegato e condiviso le riforme», più di lì non va, rivendica qualche differenza – mai o quasi mai pervenuta – «mi accusano di essere stato un ministro di Renzi, ho mantenuto le mie idee ma sono convinto che dobbiamo stare uniti». Chi si aspetta l’abiura resterà deluso. Del resto sta andando a cercare «quelli che sono andati via» ma anche quelli che restano: in Renzi hanno creduto anche tanti militanti democratici, e «più che di scissione io oggi vedo la delusione». Per ora non tira fuori le unghie. Anche la promessa di un nuovo «cambio di verso» del Pd è la promessa di scelte condivise: «Non sarò capo di una corrente, sarò capo del Pd». È una polemica con Renzi, ma sottovoce.

Al Nazareno alla commissione congressuale che si svolge in quegli stessi minuti si consuma lo scontro fra renziani e non: i primi sparati sulla data delle primarie il 9 aprile, quella che lascia aperta la possibilità di votare a giugno. I secondi attestati sulla linea del Piave del 7 maggio. Se Orlando si limita a dire che «il congresso deve essere una grande occasione di discussione», i colonnelli vanno più per le spicce «in quel caso il congresso se lo fanno da soli». Il «prudente» Guerini fa filtrare che la mediazione potrebbe essere la data del 23 aprile. Dopo la minaccia di far saltare i congressi dei circoli perché i candidati sono solo tre, è spuntata fuori una candidata dei Moderati di Giacomo Portas, Carlo Salerno. Non servirà, ma hai visto mai. Stamattina ci sarà una nuova riunione della commissione, nel pomeriggio alle 16 è già convocata la direzione che deve ratificare date e regolamento. Ma con ogni probabilità non ci sarà una proposta unitaria: il che vuol dire altri guai in arrivo.