Il Corriere della Sera recentemente ha dedicato il focus del supplemento sull’economia alla denuncia del rischio che in Italia tramonti l’obiettivo della concorrenza, unico vero fattore in grado di promuovere merito e innovazione, attraverso la competizione. Escludere la concorrenza equivarrebbe a «chiudere la porta in faccia ai giovani». Il quotidiano di via Solferino ammette la necessità di un intervento pubblico a fronte della pandemia, ma è preoccupato che finisca per tradursi nel derubricare il mercato e i suoi meccanismi capaci, in ultima istanza, di aumentare efficienza e produttività. Si paventa un «capitalismo assediato» dall’ingerenza della mano statale.

Si denuncia il rischio di togliere libertà ai capitali e di condannare eticamente il profitto privato. Contemporaneamente si rispolvera la retorica sulle corporazioni, sulle mancate liberalizzazioni nel settore energetico e nelle professioni, dalle farmacie ai dentisti. In questa narrazione ci sono diverse cose che non tornano. Veniamo da decenni di privatizzazioni e liberismo che hanno dimostrato come, battendo questa strada, effetti positivi per il mercato del lavoro e per i giovani non ne arrivino. Le privatizzazioni sono state fatte poco e male? È indubbio che abbiamo vissuto un periodo all’insegna del mercato, se ci sono stati intoppi e resistenze vi sono stati prevalentemente per la debolezza della sfera privata e non certo per la potenza strabordante di quella pubblica, questa generalmente ha svolto funzione di servizio, spesso snaturando prerogative proprie. I risultati sono stati più precarietà e disoccupazione.

Difficile sostenere che ulteriori dosi di mercato potrebbero invertire questa tendenza. L’effetto positivo del «più mercato» rischia di essere come la linea dell’orizzonte, più avanzi in quella direzione e più la linea si allontana. In Italia il privato tende ad occupare sempre di più quelle aree della produzione che possiamo definire protette, in grado di garantire rendite di posizione. Il capitale privato capace di innovazione è sovente di origine straniera e tende al monopolio.

Dove c’è la tanto vagheggiata libertà presto si creano cartelli che fanno evaporare la concorrenza. Arriva Amazon e chiudono i negozi. Ciò che invece manca sono privati per rilevare settori ad alto rischio imprenditoriale. L’industria siderurgica che potrebbe svolgere il ruolo di infrastruttura materiale per la tanto declamata seconda potenza industriale europea, ne è un esempio. Gli indiani di ArcelorMittall hanno rilevato l’Ilva e vogliono già andarsene. La siderurgia che affondò il bilancio dell’Iri divenendo il simbolo del fallimento dello Stato, oggi è il simbolo del fallimento del capitale privato. Esso ha una lunga storia caratterizzata da una dimensione medio-piccola di un’impresa sovente concentrata su segmenti a bassa intensità tecnologica.

Tutti i frangenti in cui l’Italia ha recuperato posizioni rispetto a paesi equivalenti sono stati con il supporto decisivo della mano pubblica. L’interventismo che spinse la prima industrializzazione, l’avvento dell’Iri, l’assorbimento statale dei fallimenti privati negli anni Settanta. Oggi preoccupa la sconfinamento dell’intervento pubblico nella sfera dell’impresa privata, ma è veramente questo il problema? Sarebbe meglio invece concentrarsi su quale ruolo dovrebbe avere il pubblico per sopperire ai limiti evidenti dell’impresa privata svolgendo un ruolo di forte indirizzo socio-economico. Aspetti tutt’altro che banali. C’è ovviamente un rischio di burocratizzazione e di malaffare, la necessità di trasparenza e controllo, l’urgenza di incentivare innovazione e capacità di affrontare le urgenze del nostro tempo, a partire dalla crisi ambientale.

Insomma abbiamo una prateria di problemi difronte, ciò che non vediamo sono i rischi per il mercato: quello da tempo non funziona per la collettività, o funziona troppo bene solo per pochi. Bisogna farsene una ragione e capire come andare oltre.