Ho il ricordo di due mie visite al tell o piuttosto tepè – come dicono i Turchi – di Hisarlık, cioè Troia, più esattamente Ilio (forse Wilusa nelle fonti ittite): una collinetta artificiale fatta della stratificazione di almeno nove città, dove Heinrich Schliemann dapprincipio, poi Wilhelm Dörpfeld, Carl Blegen e da ultimo Manfred Korfmann han messo in luce uno dei centri urbani di maggior rilievo, in area egea, durante l’età del Bronzo. C’è stata forse una terza visita, ma due furono quelle per me importanti: trent’anni fa la prima, avendo a guida Erodoto sul luogo della madre di tutte le guerre; e più di recente percorrendo le tappe iniziali dell’avventura di Alessandro: da Ilio, appunto, dove il ragazzo macedone aveva reso omaggio ad Atena, verso il fiume Granico e quella sua pazzesca carica di cavalleria nel guado.
Le visite a Troia si sovrappongono nella memoria quasi indistinguibili, salvo per due dettagli non rilevanti ma vividi. La seconda volta c’era infatti la novità di un cavallone di legno, sul bel lungomare di Çanakkale, la città moderna più vicina a Hisarlık: il cavallone del film Troy di Wolfgang Petersen. Un film che conoscevo solo per frammenti, m’ero rifiutato di vederlo – troppe libertà nella sceneggiatura, difficili da metabolizzare per un antichista schizzinoso … Eppure quel cavallo sul lungomare m’intrigò non poco, specie per una curiosa particolarità tecnologica: poiché era stato assemblato da una quantità di fasciami lignei, legati assieme e recuperati, si capiva bene, da relitti d’imbarcazioni. Buonissima idea: il cavallo l’avevano costruito Epeiòs e i suoi collaboratori, riciclando il legno delle navi. E, del resto, la carpenteria era avvertita dagli antichi come una techne indicativa di civiltà: non sapeva fabbricare solide zattere Odisseo, a fronte di certi suoi nemici – anche grandi e grossi e pericolosi, come il Ciclope – ch’erano irrimediabilmente ancorati alla terraferma? Giusto: a Troia i Greci erano arrivati per mare, dunque l’invenzione maliziosa del Cavallo non poteva non essere spin off del loro sapere ingegneristico navale.
Un tuffo tra le meduse
L’altro dettaglio irrilevante e vivido che contrassegna, nell’indistinto dei ricordi, la mia seconda visita a Troia, sta nel fatto che volli concedermi un tuffo nel tratto di mare antistante il solito alberghetto tra i pini, a dispetto dell’invasione d’una flotta di minuscole meduse biancastre, annunciata e paventata dal passaparola dei turisti. Ma quella non era una nuotata di piacere: doveva essere, molto più, una nuotata votiva, se così può dirsi: frettolosa, non gradevole e potenzialmente urticante, e tuttavia meravigliosamente nobilitata dalle memorie eroiche di Achille e di Alessandro.
Quando poi giunsi in vista del tell, la prima volta, ne trassi l’impressione di molti visitatori – quant’è piccolo! –, che subito corressi con consapevolezza professionale – non è poi così piccolo, se lo rapportiamo allo standard dimensionale degli altri a noi noti; e poi ricordiamoci sempre che questa è l’acropoli: la rocca palaziale di una più vasta città bassa (che gli scavi di Korfmann avrebbero poi materialmente riconosciuto). Data un’occhiata distratta a un’altra riproduzione del Cavallo – però buffa, con quella casupola da caccia alla tigre, messa sopra la groppa – e un’altra (meno distratta) alla replica del capanno di Schliemann e Dörpfeld, ricordo che fui colto immediatamente dall’emozionante visione delle mura, coi loro bastioni rettangolari e la porta sud: più di trecento metri di perimetro conservato, sei metri di altezza e quattro di spessore!
Le mura della sesta città al termine dei suoi cinquecent’anni di vita, nel pieno del II millennio: l’architetto Dörpfeld – che a partire dal 1882 affiancò Schliemann nella conduzione degli scavi, contribuendo grandemente all’affinamento della sua metodologia – pensava che fosse questa la Troia di Omero; mentre Schliemann aveva voluto riconoscerla nella seconda città, assai più antica, del III millennio. Datazione quest’ultima in netto anticipo sulla vulgata degli autori greci, per i quali l’Iliou persis, la presa e distruzione d’Ilio a opera degli Achei, poteva collocarsi, secondo le varie opinioni, fra la seconda metà del XIV e e la seconda metà del XII secolo a.C. Blegen si sarebbe infine orientato per la fase stratigraficamente etichettata come VII, nella tarda età del Bronzo.
Faccenda ingarbugliata
A dire il vero, non mi sentivo particolarmente coinvolto in quella ingarbugliata faccenda – pur cruciale, beninteso, come sempre sono cruciali, in archeologia, le questioni cronologiche. Certo, una ricognizione della galleria delle antichità preclassiche, al piano superiore del Museo Archeologico di Istanbul – dove i rinvenimenti troiani (inclusa la quota-parte lasciata da Schliemann all’autorità ottomana) sono ben contestualizzati nel quadro comparativo di altre contemporanee culture archeologiche –, svela al visitatore avvertito come quei materiali entrino coerentemente nel record tipicamente anatolico ed egeo-settentrionale dell’antica e media età del Bronzo; mentre nella sua fase più avanzata (del XIII e XII secolo) si facciano sistematicamente sempre meglio leggibili i manufatti indicatori della ‘miceneizzazione’, che qui significa un processo di slittamento economico e culturale dall’areale anatolico a quello ellenico, sia delle isole sia del continente. Insomma: gli Achei.
Perciò a Troia VII io m’immagino si parlasse greco, come sembra accadere nell’Iliade, dove i Troiani sono linguisticamente indistinguibili dai Greci, anzi culturalmente indistinguibili: stessi dèi, stesse abitudini, stessa etica. Molto più difficile è immaginarsi in quale lingua conversassero gli abitanti delle precedenti città del Bronzo Antico e Medio, mancando il canonico archivio di tavolette iscritte, che quasi tutti i centri palaziali del Levante ci hanno restituito. Quale sarà mai stata la lingua di Laomedonte, il papà di Priamo vissuto a un tempo in cui Eracle non s’era ancora messo a riposo in Olimpo e insisteva a voler perlustrare il Mediterraneo in lungo e in largo, in cerca di mostri da seviziare?
Già, perché la mitologia e l’epopea (che di mitologia è intessuta) hanno le loro brave regole cronologiche da rispettare e intere generazioni eroiche da mantenere distinte: con la caduta di Troia (e la sua data, più o meno tradizionale o più o meno stratigrafica) che stava a discrimine sanguinoso fra la preistoria – spazio dell’elaborazione mitopoietica e scaturigine d’immagini che tuttavia, per almeno quattro secoli, sarebbero rimaste imprigionate dietro il velario opaco ed elegante dello stile geometrico – e la storia, quella di Erodoto e soprattutto di Tucidide, coi suoi fatti e le testimonianze di chi vide e udì.
Una porta scea
Per questo, in definitiva, mi pareva tanto importante trovarmi a Troia: penetrare nella cittadella per il corridoio di una porta scea, salire la rampa lastricata della seconda città, riconoscerne il megaron, e quel che resta infine del podio del tempio di Atena Iliàs: non proprio quello dove Cassandra fu stuprata, ma il suo rifacimento nell’Ilium novum di età ellenistica e romana – di cui in altro viaggio, a Berlino, avrei avuto davanti agli occhi la metopa di un Sole in quadriga, così rassomigliante ad Alessandro. Non si trattava di confrontarmi nuovamente con Omero e con le verità sfuggenti del suo statuto d’autore, dei debiti contratti con l’epica del Vicino Oriente, dell’oralità e della scrittura o della costruzione della memoria di quell’assedio e dei suoi protagonisti. Prevaleva l’impressione di procedere, alla lettera, sul crinale assolato di un confine petrigno: inafferrabile come qualunque contorno, eppure solido e quasi esentato dalla corruzione del tempo. Il confine, voglio dire, di quell’argomentare che è nostro da quasi duemilacinquecento anni: fin lì (cioè a Ilio) le domande e le risposte della storia; oltre Ilio, più indietro nel tempo, il fascino e l’ambiguità del mito.
Parecchi anni dopo, avrei spesso ripetuto ai miei studenti, quasi un mantra d’inizio corso: «Non c’è nessuna ragione di dubitare dell’esistenza di un principe tessalo chiamato Achille o del sovrano di un’isoletta dello Ionio, chiamato Odisseo. Ma le storie che ne sono state tramandate dagli scrittori antichi s’intrecciano indissolubilmente alla mitologia, che racconta i miti degli dèi e degli eroi. Ora, non chiedetemi che cosa sia il mito: materia da filosofi, forse, o da psicologi. Non avrei risposta, perché all’archeologo – che quel che impara lo impara dalle cose, cioè dai manufatti – il mito resta inconoscibile. Ma della mitologia, cioè dei discorsi e delle immagini che gli uomini intorno al mito hanno saputo via via costruire, solo di questo vi potrò a mia volta raccontare». Dunque: visitare Troia era (ed è) soprattutto – coi passi che risalgono la collina, con gli occhi che cercano di scorgere, fra un monticello e una voragine, i segni della stratificazione – prendere possesso materiale di quella bisettrice di per sé totalmente immateriale che, intersecando l’evento reale della città abbattuta, divide il mito dalla storia e diventa premessa decisiva del pensiero storico.
All’addetto ai lavori Troia propone inoltre un esercizio, tutt’altro che semplice, di lettura stratigrafica. La prima volta, misi parecchio impegno a districarmici; con gli scavi di Korfmann (1988-2005) è comparsa un’utile segnaletica che, grazie a colori convenzionali di riferimento, permette anche ai turisti di collocare le evidenze tuttora leggibili entro la griglia delle nove città (e delle loro sottopartizioni). Ciò è stato reso possibile, ovviamente, dallo scrupolo stratigrafico di chi diede prosecuzione all’opera pionieristica di Schliemann, vale a dire del terzetto più volte citato: Dörpfeld, Blegen e Korfmann. Ma nessuno di questi specialisti sarebbe stato in grado di condurre la sua revisione stratigrafica, senza i famosi ‘pinnacoli’ risparmiati da quel geniale dilettante. Ricordo di averne cercato traccia, di fronte alle cavità, talune enormi, che ancora traforano il plateau, dando risalto a una tecnica di scavo da Goldsucher, da cercatore d’oro.
Giudizi denigratòri
Ciò merita d’essere sottolineato, a fronte di giudizi spesso severi, per non dire denigratòri, nei confronti di Schliemann. Ricordo, fra le meno scortesi, le parole di Antonio Giuliano: «abile speculatore, calcolatore equilibrato, freddamente maniaco…». Mettiamoci accanto l’opinione di Gabriele d’Annunzio, che pure compulsò con la massima attenzione le traduzioni francesi dei suoi resoconti di scavo e ne trasse spunti decisivi per la stesura della pièce del suo esordio in teatro, La città morta (1898): «quell’esploratore barbarico che, avendo trascorsa gran parte della sua esistenza fra le droghe e dietro un banco di commercio, si diede a ricercare i sepolcri degli Atridi nelle rovine di Micene».
A completare un quadro per più versi imbarazzante, aggiungiamo, traendole dalla bibliografia degli ultimi anni, varie puntualizzazioni su reticenze, inesattezze o vere e proprie menzogne, vicinissime al confine della frode scientifica, riscontrate nel suo modus operandi e ancor più nelle notizie datene dallo stesso Schliemann. Per cominciare: invenzione puramente letteraria la bellissima storia della sua vocazione omerica adolescenziale e dell’incontro col mugnaio ubriaco che sapeva recitare a memoria (e con la scansione metrica!) tutta l’Iliade. Poi: dovuta al competente suggerimento di Frank Calvert, proprietario della collina, e non a un’illuminazione topografica sollecitata dalla poesia di Omero, la scelta di scavare a Hisarlık. Infine, a rincarar la dose: un ingannevole assemblaggio di reperti di varia datazione e, ciò che è più grave, di non omogenea provenienza stratigrafica (per di più forse integrato da qualche acquisto antiquario), l’arcifamoso ‘tesoro di Priamo’ – oggi ospitato, dopo il trafugamento da Berlino, nel Museo Pushkin di Mosca. Di conseguenza, neanche più credibile, anzi inventato di sana pianta il racconto del suo fortunoso recupero, con l’aiuto della giovane moglie greca, che avrebbe via via nascosto nello scialle gli oggetti preziosi che andavano sottratti alla «cupidigia degli operai» – quando è ormai accertato che quel giorno, il 31 maggio del 1873, Sophia non poteva che trovarsi ad Atene, in seguito al decesso di suo padre…
Insomma, quel droghiere «barbarico» – che tanto disturbava il sentimento estetico e la vanagloria nazionalistica del Vate di casa nostra e aveva il torto, soprattutto, d’impersonare un tipo di eroe borghese ma imaginifico, costruttore con la parola, non meno che coi fatti, di una grande avventura della modernità – avrebbe dimostrato, da archeologo, una scarsa coscienza professionale. Eppure, qualche istintiva attitudine alla lettura stratigrafica e, in particolare, quella specie di sorprendente umiltà che forse l’indusse – o fu pigra indifferenza? – a non smontare i pinnacoli, hanno aperto la via ai suoi successori.
Indimostrabile e suggestiva è l’ipotesi che il giovane Blegen possa essere stato fra il pubblico delle tournées americane di Eleonora Duse (1902-’03, 1923-’24), quando fu messa in scena anche la Dead City, contemporaneamente pubblicata a New York e a Londra in due differenti traduzioni inglesi; e che ne abbia tratto, chissà, la prima idea della sua impresa a venire: fascinazione del Droghiere del Mecclenburgo … anche sotto le spoglie incestuose di quello snob di Leonardo, l’archeologo che si faceva curare le screpolature con la pomatina miracolosa di sua sorella.