Un villaggio del Kenya, lì vive Jackson, dieci anni. Vita problematica a partire dal reperimento dell’acqua. Ma Jackson è quel che si potrebbe definire un bravo figliolo, va a scuola tutti i giorni e lo fa portandosi appresso anche la sorellina più piccola. E si tratta di una piccola grande impresa quotidiana perché la scuola è lontana, sono quindici chilometri per andare e quindici per tornare, a piedi. Noi lo seguiamo in questo itinerario che assume contorni avventurosi quando deve stare attento ai branchi di elefanti.
Lungo le pendici del passo Tichka, in Marocco, abita Zahira, dodici anni. Anche lei vuole dare una svolta alla condizione in cui sono sempre state relegate le ragazzine del posto e la famiglia la supporta. Eccola quindi prendere la strada per la scuola: ventidue chilometri solo andata. Camminando trova altre due amiche con cui condividere il viaggio, chiede passaggi per rendere meno devastante quella maratona.

Dall’alta parte del Pacifico, nella Patagonia argentina, incontriamo invece Carlos, undici anni, anche lui costretto a farsi carico della sorellina nel suo lungo percorso verso la scuola. Ma Carlos è fortunato, lì percorre a cavallo. Spostandosi ancora, questa volta in India, troviamo Samuel, anche lui undici anni, che deve fare solo quattro chilometri per raggiungere la scuola. Ma non è fortunato, le sue gambe non funzionano, per la poliomielite, per questo è piazzato su una sedia a rotelle rudimentale e sono i suoi due fratelli più piccoli a sospingerlo tra impantanamenti, forature e aiuti insperati.

Seguiamo i quattro protagonisti solo nel loro ammirevole tentativo di raggiungere l’edificio scolastico e per sentire da loro stessi quanto siano determinati e pieni di speranza nel futuro che, secondo loro, li vedrà protagonisti. Pascal Plisson, francese stabilitosi in Africa, regista di Vado a scuola, potrà anche essere accusato di «buonismo», ma una volta tanto benvenga un pizzico di ottimismo nei confronti del futuro, non del pianeta e neppure dei giovani intesi come categoria, ma almeno di quei quattro cocciuti ragazzini, determinati nel sopportare grandi sforzi e difficoltà pur di raggiungere l’unico posto dove hanno una possibilità di cambiare.

Alcuni degli intoppi che Plisson piazza nel suo racconto sembrano essere al confine del documentario, una sorta di drammatizzazione costruita, che rende però ancora più prepotente e autentico il dato di fondo, quello di una realtà che abbiamo perso di vista e che qui ci viene ricordata, con garbo e molte emozioni, grazie ai visi intensi e cocciuti dei ragazzini che non hanno alcuna intenzione di lasciare che sia il destino a determinare le loro vite apparentemente già scritte. Un altro caso in cui il documentario irrompe sui nostri schermi, e se c’è un pizzico di fiction va bene lo stesso: è cinema.