L’anno appena iniziato contiene per lo spettatore due significative ricorrenze: compiranno infatti cento anni due grandi nomi dello spettacolo italiano, Franca Valeri e Gianrico Tedeschi, nati entrambi nel 1920, lei il 31 luglio, lui il 20 aprile. Una bella coincidenza, perché nelle loro biografie ricorrono tratti e percorsi simili e per certi versi anche comuni (e non solo per aver lavorato ripetutamente insieme).

Attori brillanti e nello stesso tempo serissimi, ciascuno inconfondibile, che hanno reso la propria presenza una «maschera» forte del nostro immaginario collettivo. Una vita per entrambi ricca di fatti, scelte, momenti storici ed esperienze personali, che tutti e due hanno saputo trasformare in ricchezza di quanto, dal palcoscenico, come dal grande e dal piccolo schermo, hanno comunicato al proprio pubblico. E che restano già, assieme ai ricordi di ognuno, scritti e stampati su pagine che ne raccontano la storia.

Lei, «la Franca», la propria autobiografia se l’è scritta da sola, una decina di anni fa per Einaudi, per titolo una fulminante battuta fotografica del suo lavoro: Bugiarda no, reticente. Una storia di se stessa che raccontandosi in immagini e riflessioni su tante cose accadutegli, è quasi una summa delle fantastiche figure femminili che negli anni ha inventato.

Tutte parte di lei, creazioni puntute di universi tutti possibili e tutti maledettamente graffianti, dalla Signorina snob alla sora Cecioni, dalla melomane alla vedova Socrate, dal Segno di Venere alla donna di Un eroe dei nostri tempi. Una galleria incredibile, che tiene il tempo e fa sbellicare e commuovere ancora oggi, perché restano tipologie umane formidabili e immarcescibili. Con il controcanto degli uomini che l’hanno accompagnata e lei ha amato. E dei tanti intellettuali e maestri con cui si è amichevolmente confrontata.

NON MENO curioso è il titolo della biografia che dell’altro «centenario» pochi mesi fa ha pubblicato la figlia Enrica Tedeschi: Semplice, buttato via, moderno Il «teatro per la vita» di Gianrico Tedeschi (uscito da Viella). Sotto forma di intervista raccolta in momenti diversi (il cui racconto è già letterariamente accattivante) affiorano i motivi profondi che portarono quel bambino a scegliere per la vita il teatro.

Dalla passione infantile alla consapevolezza di una realtà che nella finzione scenica si esprimeva al meglio, fino a costituire il diapason di quella scelta.

È il momento della prigionia nei lager, dove i nazisti lo tennero prigioniero per due anni dopo l’8 settembre, in quanto ufficiale spedito dal fascismo a «conquistare» la Grecia, da dove per altro aveva pensato di poter tornare in pochissimo tempo per terminare gli studi.

Fare teatro nei tre campi di concentramento dove fu rinchiuso, si rivelò per lui l’antidoto necessario per poter sopravvivere a quell’orrore in cui vedeva gli altri morire.

UNA SCELTA di civiltà, seppur necessaria, che lo portò poi alla militanza tra i partigiani, e a scegliere il teatro per la vita, nella Milano in cui lo stesso Cln scelse come sede del Piccolo teatro, pubblico e democratico, di Giorgio Strehler e Paolo Grassi il cinemetto di via Rovello usato dai nazisti per torturare gli oppositori.

Anche la figura di Strehler appare in entrambe le biografie, di Valeri e Tedeschi, come iniziatore e primo «padrino» del debutto pubblico per entrambi. Ed entrambi scelsero subito dopo di partire per Roma, lui a frequentare l’Accademia di Silvio D’Amico e Orazio Costa, lei a muoversi in quel contesto di intellettuali e artisti che segnarono uno dei momenti più felici e fecondi della cultura italiana del novecento.

E si troveranno anche a lavorare insieme, in spettacoli di grande successo e di altrettanta «rottura» (il loro Luv di Murray Schisgal con Walter Chiari suscitò parecchi pruriti all’establishment censorio di allora). Lei creava le sue storie di donne vittime ma trionfalmente vincitrici, lui già negli anni 50 portava per primo Ionesco in Italia.

Un lavoro culturale indefesso, che aveva insito il risvolto civile e libertario. È quasi impressionante ritrovare nelle storie dei due attori, l’una di estrazione borghese lui di famiglia operaia in una casa di ringhiera, come l’esperienza di quella giovinezza negli anni bui del fascismo e delle leggi razziali, dentro la medesima origine milanese, porti alla crescita e alla maturazione di una forte scelta democratica e civile.

A FARE LORO gli auguri, adesso, viene quasi un brivido.

Tutto è cambiato, ma è proprio difficile nel ristretto star system de noantri, trovare tanto coraggio da parte di chi è riuscito a diventare «forte» solo per la propria bravura.

In tutto quello che hanno fatto (lui ancora pochi anni fa nella crudele analisi del capitalismo secondo Edward Bond diretto da Ronconi, lei continuando a scrivere commedie taglienti come lame), hanno saputo trovare sempre la dolcezza per conquistarci, come negli short pubblicitari che hanno fatto epoca, un pandoro per lei, delle rinomate caramelle per lui. Declinando tutti i sapori della vita.

Gianrico Tedeschi con il manifesto
Gianrico Tedeschi con il manifesto, foto famiglia Tedeschi