ACM]Una retrospettiva dedicata a Mike Kelley (scomparso nel gennaio del 2012) al Centre Pompidou a Parigi, con più di cento opere realizzate fra il 1974 e il 2011, e un focus su sei anni di intensa attività performativa all’HangarBicocca di Milano, in una mostra concentrata tra il 2000 e il 2006, con una sola eccezione: il video The Banana Man del 1983, considerato una sorta di matrice delle idee che costelleranno tutta la sua produzione. Due occasioni per abbracciare a 360 gradi l’attività di questo prolifico autore che, nell’omaggio italiano, viene ricordato non tanto come cittadino disturbato delle periferie americane, ma come grande conoscitore della storia dell’arte, giocatore d’azzardo con i generi identitari e poeta della dissacrazione.

Nato a Detroit, poi emigrato in California negli anni Settanta, Kelley è sempre stato un autore difficile da rinchiudere entro i confini di qualche etichetta e se c’è un aggettivo che può calzare bene al suo profilo psicologico, l’unico forse utilizzabile in presenza delle sue installazioni, è «spiazzante». Sia che si adoperi per il video, la fotografia, la pittura o il disegno (sovente, a sfondo sessuale). Così, se a Parigi si è introdotti alla sua arte da una casa di uccelli che è insieme una parodia architettonica e uno sberleffo al tanto stimato bricolage domestico, a Milano – nella mostra Eternity is a long time, Emi Fontana e Andrea Lissoni, visitabile fino all’8 settembre – si finisce direttamente dentro casa e nel bel mezzo di un suicidio. Mescolando cultura pop e musicale, sogni erotici, ricordi intimi e paure terrificanti dell’infanzia, Mike Kelley è capace di rendere omaggio ad un astronauta come John Glenn (in mostra all’HangarBicocca), presentando una statua monumentale ricoperta con i rifiuti di vetro e ceramica che ha pescato nel fiume di Detroit, ma può anche riabilitare la storia minore e l’artigianato con l’aiuto di peluche, costringendoli ad azioni perturbanti e molto poco «zuccherose» (la serie iniziata nel 1987 di Half a Man, è esposta al Pompidou fino al 5 agosto).

Oppure, può rinverdire i fasti del suo gruppo rock, creato insieme a Tony Ousler, The Poetics. Alla città mitica di Superman, affida invece un’immagine distorta di mondo che parte da Kandor e si arena sulle prove dell’architettura modernista, macro e microcosmi che inciampano nella magia e dimenticano la razionalità. L’ironia è il fil rouge che tiene insieme le due rassegne e ogni «pezzo» della fabbrica Kelley, la cui impronta è la ricerca di un linguaggio vernacolare, a tratti caricaturale, prelevato direttamente dalle controculture giovanili.

La banalità è bandita, a favore di una forzatura delle frontiere tra realtà e artificio che sovente sconfina nel trauma, la rottura, attraversando i riti di passaggio dell’adolescenza. Si legge in modo agevole, questa forzatura, nell’allestimento circolare proposto all’HangarBicocca dove lo spettatore è inserito in una ragnatela di citazioni ed «echi» visivi, così da rimanere imbozzolato fra le ossessioni dell’artista che sembrano riproporsi, una dopo l’altra, in un happening continuo.