Ci sono titoli furbi, concepiti per prendere all’amo i lettori, e la metafora è così calzante che da tempo anche in Italia si parla di clickbait, appunto «amo-click». E poi ci sono i titoli a cui si «abbocca» volentieri, perché anticipano chiaramente quello di cui si parlerà nell’articolo, magari lanciando una domanda cui si vorrebbe trovare risposta. Appartiene a questa seconda famiglia (assai meno numerosa della prima) Cada hora se publican en España diez libros nuevos: ¿se editan demasiados títulos?, ovvero «Ogni ora in Spagna vengono pubblicati dieci nuovi libri: sono troppi?», uscito su El País.

L’autore, il giornalista Sergio C. Fanjul, «astrofisico per formazione, poeta per vocazione», nell’incipit fa appello a entrambe le sue muse con un’immagine efficace: «Quando si osserva il cielo notturno, si riesce a vedere… solo una minima parte delle stelle che compongono l’universo, e questa piccola porzione è già impressionante. Qualcosa di simile accade nelle librerie: vengono le vertigini a guardare i banchi delle novità, che cambiano di continuo e tuttavia mostrano solo la punta dell’iceberg di quello che il mercato produce ogni anno». E Fanjul ricorda che l’astronomo Carl Sagan nel suo documentario Cosmos indicò alcuni scaffali di una biblioteca per sottolineare quanti pochi libri si possano leggere in una vita rispetto all’immensità dei testi di cui disponiamo.

«Che ansia», commenta il giornalista, e tanto più se si pensa che i titoli pubblicati non fanno che aumentare. Nel 2021 in Spagna «sono usciti 92.700 titoli (69,7% su carta e 30,3% su altri supporti)», anche se – avverte Jesús Badenes, direttore generale della divisione editoriale del Grupo Planeta, uno dei due grandi gruppi spagnoli, insieme a Penguin Random House – solo trentamila circa passano attraverso le librerie, mentre gli altri «sono pubblicazioni istituzionali o testi scolastici». Restano comunque tanti, ma c’è chi la pensa diversamente, e guarda caso, si tratta di fonti del gruppo Penguin Random House che, interpellate da Fanjul, si appellano al concetto di bibliodiversità, di solito evocato dalle case editrici più piccole: «Un maggior numero di pubblicazioni significa una maggiore scelta per i lettori, i cui gusti e interessi sono molto eterogenei». Impossibile negarlo, ma Fanjul fa notare che «alcuni editori, soprattutto quelli più grandi, possono cercare di occupare più spazio fisico e metafisico nelle librerie, nei media e persino nella mente dei potenziali clienti». E non è detto, aggiungiamo noi, che l’occupazione di spazi e di menti favorisca la bibliodiversità.

A sostenere la necessità di immettere sul mercato tanti titoli è pure – di nuovo non a caso – Daniel Fernández, presidente della Fgee (equivalente spagnolo dell’Associazione italiana editori), convinto che l’ editoria sia come una bicicletta: «Se non si pubblicano tante novità, il meccanismo si blocca e si finisce per cadere». Non sono però d’accordo né Paca Flores, della sigla indipendente Periférica («il settore librario risente dell’ipertrofia che l’economia di mercato sta iniettando in quasi tutti i settori produttivi, compresi quelli culturali»), né Álvaro Manso, portavoce di Cegal, la confederazione dei librai spagnoli: «Dedichiamo troppo tempo a gestire l’ingresso dei libri, la loro collocazione e la resa degli invenduti. Vorremmo vedere meno editoria e più selezione».
Insomma, come si diceva un tempo, il troppo stroppia. (E non parliamo dell’Italia, dove il numero di novità pubblicate in un anno – citiamo sempre dall’articolo di Fanjul – si aggira intorno alle 110mila e una persona su due non legge neanche un libro l’anno. In Spagna, almeno, «il 64,8% legge regolarmente, per piacere»).