«Puoi scrivere la mia storia ma non il mio cognome». Khaled ha paura di essere identificato. Lo rassicuriamo. «Sono di Gaza ma vivo a Ramallah (in Cisgiordania) da 20 anni. Credimi, ho dovuto sudare parecchio per ottenere il cambio di residenza. Gli israeliani me l’hanno concesso solo nel 2010 e per anni non ho potuto lasciare Ramallah». Siamo entrambi fermi in attesa di passare il primo dei tre posti di controllo israeliani all’ingresso del valico di Re Hussein, più noto come Ponte di Allenby, tra la Cisgiordania occupata da Israele e la Giordania. Sono le 8 del mattino eppure fa già caldo nella Valle del Giordano. La luce del sole colora il deserto tra Gerico e il confine rendendo meno spiacevole la lunga attesa. Khaled fuma nervosamente una sigaretta dopo l’altra. È impaziente. Gli agenti della sicurezza israeliana da un’ora lasciano transitare solo gli autobus e le auto private e tengono bloccati i taxi collettivi.

Khaled parla fissando un punto lontano. «Credevo di aver risolto gran parte dei miei problemi quando ho ricevuto la nuova carta d’identità, dopo aver rischiato la deportazione immediata a Gaza». Da un anno non è più Israele la causa principale delle preoccupazioni di Khaled che continua ad aspirare con forza le sue sigarette. «Mi trovo davanti a un altro muro» aggiunge «ho aspettato quasi un anno il permesso per andare in Giordania. È un disastro perché ad Amman vive parte della mia famiglia». Ad un certo punto, confessa, «avevo deciso di mollare tutto. Poi è arrivato il permesso ma non so se me ne daranno un altro e io ho bisogno di muovermi spesso tra Cisgiordania e Giordania, anche per motivi di lavoro». Finalmente viene dato il via libera ai taxi collettivi. Al terminal di Allenby ci salutiamo. Palestinesi e stranieri seguono percorsi diversi durante i controlli di sicurezza israeliani. E ci rendiamo conto una volta di più della differenza tra il nostro passaporto europeo e quello di chi vive sotto occupazione militare.

Nessuno conosce il motivo ufficiale che ha spinto le autorità giordane, dall’estate del 2015, a limitare al minimo gli ingressi dei palestinesi di Gaza. Ad agosto sarebbe stato accettato solo il 20% degli oltre 800 permessi di ingresso presentate da chi abita o è originario di Gaza. A nulla è servita la denuncia fatta a maggio da Human Rights Watch. Le indiscrezioni su questa politica sono tante. Alcuni parlano di un accordo di sicurezza tra Giordania e Israele, altri del timore di Amman che il blocco di Gaza praticato da Israele, aggravato dalla chiusura del valico di Rafah da parte dell’Egitto, possa spingere gli abitanti della Striscia ad “emigrare” nel regno hashemita. Ciò però non spiega perché i giordani si stiano mostrando più rigidi proprio con i 50.000 palestinesi di Gaza che risiedono in Cisgiordania dove le condizioni di vita sono meno dure che nella Striscia e dove spesso hanno un lavoro e una famiglia. Una delle conseguenze principali di questa nuova politica è la limitazione ai viaggi dei palestinesi dei Territori occupati. Israele dal 2000, dopo l’inizio della seconda Intifada, vieta l’ingresso all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv a chi vive in Cisgiordania e Gaza. Perciò quello di Amman, soprattutto dopo la chiusura del valico di Rafah con l’Egitto, è l’unico scalo internazionale che i palestinesi sotto occupazione possono raggiungere per viaggiare in aereo. E la nuova politica messa in atto dalle autorità giordane impedisce a studenti universitari, uomini d’affari, ammalati gravi, spesso bambini, e tanti altri palestinesi di andare in un altro Paese.

Ora sono presi dall’ansia anche quelli di Gaza che già abitano in Giordania, tanti da molti anni. Non è un mistero che i palestinesi – che pure formano la maggioranza della popolazione del Paese (sono quasi tre milioni ma è proibito riconoscerlo in via ufficiale) – siano guardati con diffidenza, a dir poco, da gran parte dei giordani “autentici”, favorevoli a limitare i loro diritti. E da quando centinaia di migliaia di profughi siriani sono entrati nel Paese per sfuggire alla guerra (molti dei quali sono ammassati in prevalenza ai confini in condizioni spaventose), l’avversione dei giordani è cresciuta anche verso i rifugiati palestinesi delle guerre con Israele. Nelle strade di Amman, colorate dai manifesti dei candidati alle elezioni del 20 settembre, regna una calma carica della tensione di chi teme per il suo futuro. «Aspetto da mesi il permesso di residenza. Non so cosa pensare, potrebbero deportarmi in qualsiasi momento», ci dice Ahmad B., originario di Beit Hanoun (Gaza) che incontriamo a Wadi Saqra, vicino alla zona residenziale di Jabal Amman dove lavora come cuoco. «Ogni giorno aumenta l’avversione contro gli stranieri e non sappiamo cosa accadrà ai palestinesi che non hanno i documenti in ordine. Non abbiamo più certezze ed io temo il peggio», ci confida mentre tiene d’occhio un’auto della polizia che transita nella zona.