Gli spiccioli che abbiamo in tasca costituiscono un oggetto filosofico. Sono protagonisti dei nostri comportamenti quotidiani, eppure denunciano un enigma antropologico. Come è possibile che qualche grammo di metallo sia in grado di condannarci alla fame o sottrarci all’inedia? Questo è l’interrogativo del quale discutono due tra i più noti filosofi contemporanei, John Searle e Maurizio Ferraris in Il denaro e i suoi inganni (Einaudi, pp. 126, euro 12,00) mettendo in scena un dibattito vivace in un volume agile e comprensibile anche ai non filosofi.

Searle legge il denaro attraverso una delle sue nozioni cardine, la «funzione di status». Il denaro non ha valore in sé, come vorrebbe il feticista accumulatore, la sua importanza è dettata, piuttosto, dal contesto sociale. Come il governo e il matrimonio, anche il denaro è una istituzione dipendente dalla comunità che gli riconosce una funzione. A prescindere dal tipo di moneta, ribadisce il filosofo americano, denaro e funzione di status traggono la propria forza dalla mente umana: il denaro trova uso perché questa è l’intenzione e la volontà di chi lo impiega. Pur riconoscendo l’utilità del denaro, Searle si concentra sugli inganni monetari legati alle sue forme più recenti. Oggi più che mai, la funzione di status tenderebbe a divenire una finzione che porta alla frode e al disastro economico.

Ferraris, invece, parte da un diverso punto di vista. A un primo sguardo potrà anche sembrare che le istituzioni umane si basino sulle intenzioni di chi vi partecipa. Ma se si va più a fondo, si scopre che anche il denaro si basa su quel che Ferraris chiama ormai da tempo «documentalità». Le istituzioni sarebbero sorrette non dalle intenzioni di chi le fonda ma dalla memoria pratica dei loro utenti. Il rito e la moneta sono forme mnemoniche, ma non perché dotate di una struttura che porta al ricordo della loro funzione originaria o dell’intenzione del proprio costruttore.
Anche il denaro è un documento perché, come lo smartphone, spinge i suoi utenti a comportarsi secondo strategie delle quali, spesso, non hanno cognizione né consapevolezza. Per questo motivo, il denaro viene definito «un documento accessibile anche agli analfabeti»: non un inganno, ma un enigma prodotto dal potere mistico esercitato da ogni forma tecnologica e documentale.
Al di là della differenza di posizioni, i due filosofi procedono su una strada comune, riducendo il denaro al loro impianto teorico generale. Di fronte alle sfide poste dalla moneta, né Searle né Ferraris sembrano disposti a mettere in gioco qualche elemento di fondo delle rispettive posizioni. Il primo riporta il denaro all’intenzionalità, il secondo al documento: una scelta che vanta il pregio della coerenza; ma al tempo stesso corre il rischio di una controindicazione.
Il volume si limita a sfiorare quella che appare la caratteristica specifica del denaro sia allo sguardo superficiale di chi fa la spesa (l’intuizione del senso comune sulla quale lavora Searle) sia per molta riflessione antropologica sulla tecnica (la via percorsa da Ferraris). A differenza del matrimonio o degli scacchi, infatti, il denaro sembra essere una istituzione legata al mondo della produzione e, da un paio di secoli, alla sfera del lavoro salariato.

Il filosofo statunitense si limita a parlare di «denaro merce» in termini generici, come forma primitiva che sostituisce il baratto; il filosofo italiano preferisce soffermarsi sul rapporto tra denaro, autorità e innovazione tecnologica. I due autori concordano sull’idea che vi sia un legame stretto tra denaro e dominio ma non indagano, magari per confutarlo, il rapporto tra produzione della vita e uso della moneta. Ecco, forse, un punto nevralgico sul quale tornare a discutere: non sarà, invece, proprio una simile rinuncia a farci percepire quel tintinnio nelle tasche come il monito inscalfibile del profeta?