«La situazione mi ricorda quella del 1993-94, quando la Dc era allo sfascio e i democristiani cercavano riparo da Berlusconi», confessava ieri un forzista di lungo corso. La differenza è che stavolta allo sbando ci sono gli azzurri e non c’è nessuno presso cui cercare riparo. Poche ore dopo arrivava la conferma dello stato quasi esanime del non-partito che ha costituito per due decenni il fulcro della politica italiana. Sandro Bondi e Manuela Repetti, sua consorte, hanno lasciato il gruppo azzurro al Senato per aderire al misto. Si trattasse solo della senatrice, già sarebbe un colpo duro, ma l’addio di Bondi è il segno di un’epoca al tramonto. Non un forzista qualsiasi, ma l’uomo che per anni aveva intrattenuto con re Silvio un rapporto di totale adorazione, a volte un po’ risibile ma a modo suo persino tenera e senza dubbio sincera. Bondi, che ad Arcore aveva addirittura lo studio e quasi ci abitava. Bondi l’innamorato.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso pare siano state le manovre della tesoriera e anello fondamentale del cerchio magico Maria Rosaria Rossi per limitare a tre mandati la possibilità di essere rieletti sotto le bandiere di Arcore. Ma lo sanno tutti che se il casus belli non fosse stato questo ne sarebbe arrivato senza dubbio un altro, perché il malessere dichiarato e pubblico della coppia è proprio in quel «cerchio magico» che ha tagliato fuori dall’intimità col capo, e dunque da ogni decisione e da ogni gestione, l’intera vecchia guardia. Ma l’abbandono non basta. Bondi il fedelissimo non ha neppure sprecato un colpo di telefono per avvertire l’ex idolatrato della sofferta scelta. Due ore di colloquio inutile con il capo dei senatori Paolo Romani, e poi Forza Italia addio.

Silvio l’abbandonato si dichiara «amareggiato e costernato». Si può giurare che, per una volta, non mente e non esagera. Nessuno più di lui si rende conto di quanto grave sia la situazione, pur non avendo più la capacità, e forse nemmeno la voglia, di fronteggiarla. Lunedì, in tarda serata, l’ex onnipotente ha incontrato l’astro nascente Matteo Salvini (nuovo incontro previsto per oggi) e gli ha garantito l’appoggio azzurro a Luca Zaia in Veneto. Una scelta sofferta, perché quel Salvini Berlusconi in realtà lo sopporta pochissimo: non gli piace l’uomo, non apprezza la sua rozza visione politica, sa che costituisce un ostacolo insormontabile per ogni ipotesi di ricostruzione del “suo” centrodestra, quello antico, quello dei bei tempi. Però Flavio Tosi gli piace ancora di meno e nemmeno offre quelle garanzie di vittoria che con Salvini e Zaia invece ci sono. Dunque il dado pare tratto, anche se mezzo partito mastica amaro e avrebbe preferito Tosi, oppure correre da soli, tanto più dopo il barlume di speranza accesso dal successo di Sarkozy in Francia.

In Toscana invece, Lega e Forza Italia andranno divise. Berlusconi non se la è sentita di cedere anche su quel fronte e per Salvini non c’è mai stata alternativa alla presentazione di un candidato leghista. In Liguria, dove le divisioni del centrosinistra hanno all’improvviso riaperto una possibilità di vittoria, il candidato sarà Giovanni Toti, con la Lega dietro. In privato nessuno tra gli azzurri esita ad ammettere che si tratta di una candidatura debolissima. Purtroppo di meglio, oggi come oggi, Fi non è in grado trovare neppure col lanternino. Neppure il caso della Campania vale a rasserenare gli umori neri che imperversano ad Arcore. Certo, il fatto che il centrosinistra presenti un candidato ineleggibile rimette in pista Stefano Caldoro, con il sostegno anche dell’Ncd. Ma il Pd sta esercitando pressioni di ogni tipo per convincere Vincenzo De Luca a fare il bel gesto, nel qual caso è prevedibile che l’Ncd campano esploderebbe. Come del resto sta deflagrando quello nazionale, con Nunzia Di Girolamo sul punto di essere rimossa da capogruppo e vicinissima all’addio.

Poi c’è la Puglia, con Raffele Fitto a un passo dalla scissione. C’è Romani, che dopo essersi lasciato sfuggire qualche paroletta sincera di troppo sullo stato del partito («Siamo divisi e litigiosi, non raccontiamo cose credibili») rischia il posto. C’è la minaccia del limite dei tre mandati, che da sola basta a fare dei gruppi parlamentari un Bounty. Va così quando un partito si dissolve.