Luciano Anceschi ha più volte sottolineato «l’incidenza della poesia nella realtà» del Novecento.

Come “incide” la poesia in un secolo che, a partire dal suo secondo decennio e per trent’anni, conosce la ferocia di ripetute e continue guerre e non dismette le devastazioni? Il secolo dei conflitti armati che dai fronti europei, a far data dal 1914, si estendono fino a coinvolgere, dal 1939 al 1945, l’Africa, il Pacifico e l’Asia? E restano accesi fuochi, dopo il 1945, in Giappone con la prima bomba atomica a sterminare gli inermi abitanti di Hiroshima e Nagasaki; in Medio Oriente e in Corea, per insanguinare, fin dentro agli anni Settanta, il Vietnam e, dalla soglia degli anni Ottanta, l’Afganistan e… Un secolo che vede proliferare in crescendo ed usa mezzi di distruzione sempre più efficaci. Le nuove, dirompenti acquisizioni della fisica e della chimica consegnano nozioni innovative tali alle tecnologie, che un poderoso assetto industriale è predisposto ad applicare e a perfezionare nella produzione di armi micidiali a ritmi forzati. E gli orrori della guerra. La militarizzazione delle istituzioni politiche. La riduzione dell’uomo a strumento. Il numero a sostituire l’irripetibile preziosità d’ogni singola vita cancellata nelle carneficine, annullata nel perseguimento di una ‘tecnologica’ soluzione finale. Milioni di vite recise nell’espandersi delle guerre civili: in Russia, in Messico, in Germania, in Spagna, in Italia, in Cina, in Palestina… Tale la situazione, la condizione storica della poesia nel Novecento. Al punto che, Anceschi scrive, «qualcuno, tenendo vivo il ricordo degli orrori, delle rovine, dei mali della società in cui siam vissuti e viviamo in questo secolo terribile, ha decretato per la poesia il dovere del silenzio». E aggiunge: «i mali, gli orrori, le rovine – talora preparati dall’uomo come macchine perfette – comportano un gesto di rinuncia. Qualche cosa ci vieterebbe di scrivere poesia».

Affiorano alla mente le accorate cadenze degli endecasillabi di Salvatore Quasimodo: «E come potevamo noi cantare/con il piede straniero sopra il cuore/fra i morti abbandonati nelle piazze/(…)/Alle fronde dei salici, per voto,/anche le nostre cetre erano appese/oscillavano lievi al triste vento». Uno scoro, uno sgomento, un ammutolire straziato che è, tuttavia, dal poeta, dichiarato – e reso e formulato (cantato) – nella regola e nelle misure della poesia. Così Anceschi può richiamare Omero che (tra l’altro nell’ottavo canto dell’Odissea) aveva ben chiaro come «proprio sulle rovine, sui mali e su gli orrori, si istituisce la poesia – che quasi da essi nasce».

Crudele, funesto, amaro, ma non inaridito, allora, anzi fertile e fecondo il terreno del Novecento, da giudicare, ahimé, fin troppo ben esposto, e dal quale scaturiscono linfe che apportano ai frutti della poesia una sostanza specialmente nutriente. Da qui il contributo conoscitivo eminente che la poesia del Novecento rappresenta.

In questo contesto, Anceschi reca un ulteriore elemento di riflessione quando invita a considerare come, nel corso del secolo, «la poesia avesse recuperato per sé anche per certe sue difficili strade ironiche molti significati che la filosofia aveva abbandonato». Questioni sollevate e ragionate da Anceschi fin dalla pubblicazione, nel 1936 di Autonomia ed eteronomia dell’arte. Sviluppo e storia di un problema estetico e da allora precisate ed approfondite, arricchite, con invariata finezza, negli assidui studi dell’intera vita (Anceschi scompare nel 1995). La poesia dunque, nel Novecento, assume come propri ambiti di indagine e temi di ricognizione che la ricerca filosofica, per consolidate risultanze, riteneva suoi peculiari. È che fin dai primi del secolo linguaggi codificati e generi disciplinari circoscritti, grammatiche e sintassi consolidate, perdono in affidabilità, mostrano insanabili incrinature, cedono su quei cardini che a lungo avevano consentito saldi costrutti e ora pericolosamente oscillano. E dove i linguaggi frangono, si scompongono e siglano inedite congiunzioni o provvisorie, ma illuminanti, agnizioni, là è il tempo della teoresi poetica. Essa tenta, dice Anceschi, «di dare con i suoi mezzi sempre rinnovati risposte profonde a certe domande radicali dell’uomo».