Nato a Cleveland nel 1971 ma formatosi culturalmente a Oxford, Mississippi, la patria di William Faulkner dove ha avuto come maestri e mentori due tra i maggiori esponenti della letteratura del sud degli Stati Uniti, Barry Hannah e Larry Brown, Jonathan Miles ha alle spalle una carriera da giornalista di notevole livello, capace di spaziare dalla politica al costume, dall’enologia al reportage vero e proprio, con una lingua a tratti immaginifica che rende non peregrino l’accostamento a maestri della nonfiction contemporanea come John Jeremiah Sullivan.

Accanto a questa, che rimane la sua principale forma di scrittura, e che lo ha portato a New York, dove vive e dove ha collaborato o collabora con alcune delle maggiori testate americane, cartacee e online, come il New York Times Magazine, GQ, Esquire e Salon.com, Miles si è affermato come narratore dalla cifra insolita e originale, esordendo nel 2008 con Dear American Airlines, romanzo sotto forma di lettera nella quale il protagonista, Benny Ford, poeta fallito e traduttore, protestando contro la compagnia aerea per la cancellazione del volo che avrebbe dovuto portarlo al matrimonio della figlia, finisce per scatenarsi in una comica e apocalittica geremiade sui fallimenti di una vita intera, e di un paese.

Nel 2013, Miles ha alzato ulteriormente il tiro con Want Not, romanzo dall’architettura complessa, che ruota attorno a tre storie parallele: quella di Micah e Talmadge, coppia di squatter vegani che sopravvivono riciclando scarti, alimentari e non; quella di Elwin Cross, professore di linguistica a un passo dall’obesità, abbandonato dalla moglie e con il padre malato di Alzheimer, e quella di Sara, che ha perso il marito nell’attentato al World Trade Center per scoprirne subito dopo l’infedeltà, e si è risposata con Dave, proprietario di un’agenzia specializzata nel rilevare e riscattare debiti scaduti.

Accolto da un grande successo di critica, apprezzato da alcuni tra gli scrittori più interessanti delle ultime generazioni, come Dave Eggers e Joshua Ferris, selezionato tra i migliori libri dell’anno da New York Times, Wall Street Journal e Washington Post, il corposo romanzo di Miles viene ora pubblicato anche in Italia, in un’edizione curatissima, da Minimum Fax (Scarti, traduzione, molto buona, di Assunta Martinese, pp. 577, euro 18,00).

Il titolo dell’edizione italiana costituisce una sorta di primo viatico per la comprensione del libro, o meglio, dell’elemento che ne unifica l’architettura. Se infatti i due squatter vegani rappresentano l’incarnazione di un modello di vita e di una filosofia fondata sul sistematico riciclaggio di oggetti e alimenti, la definizione di «scarto» si attaglia perfettamente anche al personaggio di Elwin – forse il più riuscito del romanzo –, una sorta di balena arenata sulle spiagge di un’esistenza fatta di solitudine, rifiuti, abbandono, eppure lucido e determinato nel non gettare via nulla, nel preservare un nucleo di affetti e di ricordi, nel combattere la smemoratezza di un padre ogni giorno più assente e lontano, o nel rifiutarsi di rottamare la sua jeep incidentata, come gli chiede la compagnia di assicurazioni, preferendo invece ripararla insieme al figlio dei vicini di casa, con il quale stabilisce un rapporto quasi paterno. Tutto il contrario di Sara, che il suo passato – nella persona del marito, Brian, martire fedifrago dell’11 settembre – ha deciso di cancellarlo senza ripensamenti, e che forse proprio per questo si dimostra incapace di vivere il presente e di mantenere un qualunque rapporto con la figlia adolescente, Alexis, cresciuta nel mito del padre.

E ancora, sugli scarti costruisce la sua dubbia fortuna Dave, che riesce con l’inganno a riscuotere debiti ormai inesigibili e prescritti, e che non esita a utilizzare all’uopo i social network, creando profili facebook di donne giovani e fascinose, per ingannare i malcapitati clienti.
Scarti si propone, insomma, come una vera e propria «anatomia del riciclaggio»: ci rappresenta un mondo che si definisce attraverso ciò che rigetta fuori da sé, sotto forma di rifiuto o di obsolescenza, in ogni sfera, economica, morale, famigliare, sentimentale, filosofica. Per citare i pensieri di Elwin: «Venimmo, vedemmo, scartammo. Una futilità contrapposta a un’altra». In un universo segnato da un eccesso programmatico e costitutivo, esistono due possibilità sole: raccogliere ciò che viene scartato e costruire un nuovo ciclo vitale (è quanto accade per i cibi raccattati nei bidoni dell’immondizia da Micah e Talmadge, ma anche per la jeep di Elwin) o lasciare che il rifiuto, il materiale di risulta, svanisca e si deteriori, lasciando marcire i cibi, rottamando oggetti e amori con la medesima disinvoltura, accettando «la dissonante beatitudine della resa: lascia che sia, let it be, come diceva la canzone».

Il romanzo segue la filosofia positiva di Elwin, la fa propria, rinuncia all’economia, all’ordine, all’espulsione del superfluo, e opta per un regime digressivo, nel quale ogni capitolo apre parentesi impreviste, recuperando il passato dei personaggi ma senza mai concentrarsi su ciò che è direttamente rilevante alla costruzione della trama. Narratore in questo profondamente sudista, e al contempo accostabile, per l’irresistibile umorismo di alcuni passaggi e per la vena satirica, a maestri del racconto e del monologo autobiografico come Saunders o Sedaris, Miles opta per una fluvialità nella quale i protagonisti e le loro storie sembrano vagare in balia di una corrente capricciosa, finché, ma solo nelle ultime cinquanta pagine del libro, un artificio narrativo non li fa convergere e incontrare.

Non tutto funziona adeguatamente, in Scarti: i capitoli dedicati ai due squatters scadono a tratti in un eccesso di programmaticità, anche se non mancano le parentesi di comicità pura e le pagine più intime, nelle quali traspare un affetto di fondo per la coppia di improbabili vegani; i personaggi di Sara e della figlia Alexis non sono completamente a fuoco, e le loro storie tendono a girare a vuoto. La scansione a capitoli alternati, senza mai una variante, conferisce al romanzo una certa meccanicità, cosicché, più che la struttura narrativa nel suo insieme, a risultare godibile è la vena digressiva che interviene a scompaginarla, e che regala pagine meravigliosamente divaganti. Resta tuttavia impossibile negare l’intelligenza dell’autore, la capacità di dominare e sviscerare un tema complesso e di calarlo dentro vicende credibili e coinvolgenti.

Proprio dentro una delle tante digressioni, apparentemente irrilevanti, si nasconde quella che forse è la morale più profonda del romanzo. Miles la affida – con scelta non casuale – al vecchio padre di Elwin: anche lui professore universitario, ma di storia, ossessionato dal tema del genocidio e dedito, nelle nebbie dell’Alzheimer, a scrivere il suo ultimo saggio. Quando le sue riflessioni lo portano a concentrarsi sui due destini possibili e contrapposti del genere umano, prosperità e rovina, il vecchio professor Cross si prende qualche minuto, prima di scegliere. «Guardò in alto, in basso, attorno, osservando la stanza e decidendo alla fine con uno sprazzo di pessimismo spengleriano: rovina. Quello che abbiamo è la rovina, l’unica cosa che abbiamo è la rovina. La prosperità è solo una fase, come l’infanzia». Uno sprazzo di pessimismo, certo: ma è solo abbracciando la logica della rovina che gli scarti, anziché materiale da seppellire o sparare nello spazio, tornano a essere, più autenticamente, un bene da custodire. Per l’appunto, l’unica cosa che abbiamo, e che ci resta.