Come nascono i movimenti? «Non c’è dubbio che ogni evento rappresenta per così dire, il ‘foro d’uscita’ di un processo che è avvenuto al di sotto della superficie della società attraverso progressive accumulazioni e, come quei fenomeni tettonici di crisi, come i grandi terremoti, a un certo punto emerge alla superficie in forma di evento. Cioè, non c’è dubbio che ogni evento rappresenta, per certi versi, la spia di processi invisibili accumulatisi nel tempo e poi bruscamente emersi alla superficie. E tuttavia – in questo sta la problematicità del rapporto – gli eventi non sono strettamente riconducibili ai processi: pur esprimendo questi processi, sono anche portatori di un novum, di un qualche elemento che è irriducibile alla serialità storica e che ne spiega l’esplodere lì ed ora. In ogni evento, in sostanza, si esprime una processualità e si esprime una istantaneità del fenomeno: si esprime una ripetitività di atti e di gesti nel tempo e si esprime l’irrompere dell’inedito. Ogni evento, in sostanza, esprime un processo di accumulazione ma anche l’esistenza di un detonatore irriducibile alla semplice processualità». Così mirabilmente scrive Marco Revelli in Le spie ricorrenti del disagio sociale: jacqueries, rivolte urbane, proteste giovanili, subculture della protesta, pubblicato nel volume collettivo Repubblica, Costituzione, trasformazione della società italiana. 1946-1996: percorsi di cittadinanza.
Sono parole che fanno pensare anche al fenomeno dei gilets jaunes, a noi servono per chiederci come e perché nacque il movimento rave. L’uscita di due titoli importanti delle edizioni Agenzia X ci invita a fare un resoconto della cultura rave a oltre trentacinque anni dai suoi inizi. I due testi sono entrambi necessari e trattano l’argomento in maniera diversificata, pur facendo parlare a volte gli stessi protagonisti. I libri in causa sono la seconda edizione aggiornata e ampliata di Rave New World. L’ultima controcultura (351 ppgg, 16 euro) di Tobia D’Onofrio e Rave in Italy. Gli anni Novanta raccontati dai protagonisti (237 ppgg, 15 euro) di Pablito el Drito, al secolo Paolo Pistolesi.

INTELLETTUALI
Tobia D’Onofrio e Paolo Pistolesi sono due ricercatori autonomi, o «ricercatori coinvolti», per riprendere la definizione che Rémi Hess usa nella significativa prefazione a Rave New World, due giovani intellettuali, che nelle loro argomentazioni passano senza difficoltà dalle ultime tendenze della musica elettronica alle ricerche sociologiche e filosofiche. Appassionati delle controculture sociali e musicali, quello che colpisce nei loro racconti è la cognizione degli argomenti e la loro contestualizzazione dei momenti storici specifici. Entrambi sono degli attivisti politico-culturali, D’Onofrio è un giornalista musicale, allievo dell’indimenticabile sociologo Pietro Fumarola, che con altri compagni cura l’importantissimo Archivio e biblioteca dedicati ad Antonio Caronia, ospitati alla cascina autogestita Torchiera Senz’Acqua di Milano (sia l’archivio – con riviste e libri introvabili, tra cui la collezione della rivista Un’ambigua utopia – sia il centro sociale meriterebbero un articolo a sé per l’importanza e la continuità della proposta culturale). Pistolesi, storico di formazione, redattore di MilanoX, scrittore e libraio a Milano, è un dj sperimentale, animatore di ReXistenz, etichetta autogestita e anonima, senza marchio, che – come suggerisce il nome – tiene assieme scenari musicali cronenberghiani e radicalità politica.
Diversità e complementarietà dei due libri. Il libro di Tobia ha un’estensione storica e internazionale del fenomeno rave – la nascita della musica techno tra Chicago e Detroit, la nascita del movimento in Inghilterra, fino alle ramificazioni e alle trasformazioni odierne con un interessantissimo capitolo dedicato alla Palestina; una visione etnologica, con i capitoli dedicati alla trance e al rapporto con la pizzica che, grazie a Dj War, Sud Sound System, l’apporto teorico di Pietro Fumarola ecc., ha vivacizzato e vivificato la cultura salentina. Ideale per chi non ha vissuto il movimento rave – di cui lascia emergere un’interpretazione – e voglia avere una panoramica delle culture di riferimento. Il testo è denso di rimandi, interventi e interviste, dal critico Simon Reynolds a Valerio Mattioli, da Spiral Tribe a Chris Liberator ai Mutoid, tribù di scultori sociali cyberpunk.

INTERPRETAZIONI
Invece nel libro di Pistolesi le interpretazioni sono 32, cioè una diversa dall’altra a seconda del testimone che racconta la scena. Quello che accomuna le interpretazioni e sorprende è la densità creativa che quel movimento ha prodotto. Dalle quattro città prese in esame – Roma, Bologna, Torino, Milano – , emergono figure notevoli della visionarietà creativa musicale contemporanea, a iniziare dal plagiarista Dj Balli (imperdibile anche il suo Frankenstein Goes to Holocaust. Mostri sonori, hyper mash-up, audio espropri) passando per Anna Bolena, Max Durante, Luciano Lamanna, Fire at Work, Andrea Benedetti, Okapi e i gemelli d’Arcangelo. Il libro di Pablito storicizza quello che è stato il periodo d’oro del movimento in Italia, ne spiega l’essenza, la parte più bella, i momenti chiave, ma lascia che il quadro venga fuori dal racconto dei protagonisti.
Pablito, a fine 2017, ha pubblicato un romanzo sugli stessi temi, si tratta di Once Were Ravers (sempre Agenzia X), dove i protagonisti viaggiano tra feste, riti, dissipazioni e droghe, tra Firenze, Viareggio, Milano e Bologna, tra i capannoni industriali abbandonati dalla produzione fordista. Era già la fase calante del movimento rave, prima e dopo il G8 di Genova, evento che fa da spartiacque percettivo tra «altro mondo possibile» e spaesamento. Ambientato ai tempi in cui i rave erano un nuovo modo di riappropriarsi di spazi abbandonati, ne racconta lo spirito senza cadere in idealizzazioni. Sballo, musica, sentirsi parte di un tutto, vivere fuori da orari e regole imposti; ma anche down da post-party, domande esistenziali, paranoia e contraddizioni. Un romanzo neorealista dopato, o alter/realista, che racconta con umorismo il reale e l’immaginario, il sogno e l’allucinato, da leggere assieme a Muro di casse, il romanzo di Vanni Santoni, l’altro classico della narrazione raver italiana.

OCCUPAZIONI
Reynolds, in Energy Flash (altro testo sul tema, dedicato alla scena inglese), scrive: «Nostante la sua natura escapista, l’esperienza rave mi ha realmente politicizzato, inducendomi a riflettere profondamente su questioni di razza, genere, classe e tecnologia». Non a caso, in alcuni appuntamenti si distribuivano dei volantini con queste indicazioni su cos’è un rave: affronto alla proprietà privata attraverso l’occupazione di spazi abbandonati delle grandi città e la loro autogestione temporanea; attacco alle forme di produzione commerciale delle discoteche, al valore del denaro, ai rapporti sociopolitici di dominio; negazione del dj visto come «star» dell’evento; autoproduzione come concetto di massa, dalla produzione stessa della musica alla creazione di una vera e propria microeconomia alternativa, compreso il baratto; approccio allo sconosciuto con empatia; sperimentazione di stati di coscienza diversi da quello tipico della quotidianità lavorativa (con o senza l’uso di sostanze); ricerca di una consapevolezza comune, grazie alla messa in rete e alla condivisione di conoscenze su un uso creativo e sovversivo della tecnologia; uguaglianza nelle diversità, al di fuori, e, dalla politica tradizionale.
Vanni Santoni, nell’introduzione a Rave New World, giustamente sottolinea la natura nomade della controcultura rave: «In un momento come questo, di fronte al rigurgito dei più rivoltanti nazionalismi, tale aspetto della cultura rave è quello su cui vale maggiormente la pena soffermarsi, nasce e si diffonde con la forza che l’ha caratterizzata proprio a causa di tale elemento, capace negli anni di ribaltare il tavolo da gioco e trasformare gli attacchi in spinte proiettive».

PARLANO GLI AUTORI

Raccontare la cultura rave a oltre trentacinque anni dalla sua nascita, questa è l’idea alla base dei libri di cui parliamo in queste pagine, ne abbiamo discusso con gli autori.
Com’è nato il movimento rave?
Tobia D’Onofrio: Difficile rispondere, posso dire, ripensando ai suoi inizi in Italia, che la cosa bella della nascita del movimento rave è stata la sensazione che tutto fosse fluido, in mutazione: ai primi rave si potevano trovare i punk, alcuni hippie e freak, i cyberpunk, le posse, altre componenti meno definite, che poi in qualche modo si amalgameranno per formare qualcosa di diverso, ma non c’era una coscienza di cosa fosse il fenomeno in sé, né tantomeno la consapevolezza che si stava diventando sempre di più, anche se si vedeva crescere l’interesse per questi eventi di tipo nuovo. La sensazione di un movimento che si sta creando senza codificazioni, senza cristallizzazioni e l’estrema libertà di partecipazione erano le caratteristiche del movimento nascente. Per esempio non c’era ancora il cliché dell’abbigliamento del raver con le scarpe da skate, i dreadlock eccetera. Ai rave c’era più libertà che in una festa in un centro sociale, la differenza in fondo era quella tra taz e paz, tra zone temporaneamente autonome (così come teorizzate da Hakim Bey, uno dei riferimenti della cultura rave) e zone permanentemente autonome. In un luogo più strutturato e codificato è più facile ripetersi, in un luogo in fieri le potenzialità sono «infinite».
Pablito el Drito: La situazione di espansione ed evoluzione si sommava a una voluta anonimità, l’essere anonimo è un’altra delle caratteristiche del movimento rave nel suo stadio iniziale. Non si sapeva chi organizzava il rave, non si sapeva chi suonasse, c’era addirittura la possibilità di proporre il proprio live set. C’era una forte esigenza di affermare una zona esterna alle dinamiche imposte dalle istanze economiche, amministrative e istituzionali che regolano la quotidianità dello spazio «pubblico» e di chi lo attraversa. Ma ci fu una sordità e rigidità – almeno iniziale – da parte del movimento dei centri sociali verso la musica techno, inoltre l’idea di zone temporanee di sperimentazione oltre le codificazioni spingeva alcune frange a rompere con le tradizionali occupazioni. A questo si va a sommare l’arrivo in Italia delle tribe dall’Inghilterra, dopo la repressione del Criminal Justice Act, che scardinano ulteriormente gli schemi politici. In Italia le tribe trovano un’altra cultura politica antagonista dal cui confronto nasceranno esperienze positive.
Qual è la differenza tra cultura rave e le controculture che l’hanno preceduta? È solo una fusione degli elementi psichelici, cyber, punk ecc., o una propria originalità?
P. D.: Certamente la techno è la musica che permette di mettere il corpo al centro della festa, mentre nelle altre musiche c’è sempre il palco, il corpo è sempre quello delle star che si esibiscono, mentre nel rave il corpo diventa plurimo, è quello dei corpi che ballano a oltranza. La centralità del corpo e la lunga durata delle feste sono tra le caratteristiche principali dei rave. L’originalità della musica techno in quel momento è data dal legame tra la musica nera, il funk e il soul, e l’elettronica. È l’ultima musica che non si guarda indietro – la famosa retromania, individuata da Simon Reynolds – ma guarda avanti verso una utopia musicale fantascientifica in un futuro possibile.
T. D’O.: Penso che una delle caratteristiche principali del rave sia quella individuata da Georges Lapassade, ossia la centralità del ballo estatico. Anche molte feste hippie e giovanili degli anni Sessanta e Settanta nei migliori casi si trasformavano in festa trance, ma nei rave c’è una tabula rasa di tutto il resto e il fine ultimo diventa la ricerca dell’estasi attraverso la musica e il ballo, la festa. Certo ci sono il DIY del punk, le autoproduzioni, la cultura psichedelica e l’approccio consapevole alle sostanze, il nomadismo, ma la centralità è quella della festa. Si ritorna a qualcosa di primitivo, si ritorna a parlare di Dioniso, dei misteri di Eleusi, di sciamanesimo, per andare a scoprire quello che è il senso ultimo della festa. Una festa fuori dal comune per il raver è tutto. I rave hanno cambiato le persone proprio perché dopo aver vissuto esperienze così forti dal punto di vista emozionale, il tuo sguardo sul mondo non può più essere lo stesso. A questo proposito c’è ancora dibattito sul rave «politico». Ci sono stati dei momenti politicizzati nella storia dei rave, soprattutto nel periodo del movimento altermondialista, ma bisogna anche dire che la maggior parte di quelli che vi partecipavano avevano un interesse prevalentemente edonistico, ciò non toglie però che l’esperienza vissuta non abbia prodotto cambiamenti importanti. Molta gente ha contestualizzato a posteriori le esperienze dei rave, andando a costruire il puzzle che dà sostanza culturale e politica. Non credo dunque all’idea dei rave «consapevoli» ad ogni costo, ma credo nella festa selvaggia e autogestita che agisce a livello subliminale nell’esperienza dei partecipanti.
Qual è stata la contaminazione con i movimenti politici tout-court?
P. D.: Nelle street rave parade, penso a quella di Bologna o alla MayDay di Milano, nei Pride, certi aspetti della cultura rave si sono travasati. E anche la contaminazione politica tra le tribe nomadi inglesi e i centri sociali italiani c’è stata, proprio Tobia a conclusione del suo libro ci racconta della nascita dei social centre inglesi dopo la scoperta di quelli italiani. Ma penso ci sia stata una ibridazione positiva che ha modificato i paradigmi del fare comunicazione, del fare musica, del fare politica. I centri sociali avevano le loro ragioni, ma i raver avevano capito che tra la discoteca e gli spazi liberati dei centri sociali c’era un’alternativa che era appunto quella del nomadismo, delle taz.
T. D’O.: Il fenomeno rave è continuato negli anni con le sue modificazioni spesso dovute a cambiamenti socio-politici e ha influenzato altri movimenti con la pratica dell’azione diretta. Teniamo presente che nell’arco di vent’anni la società è radicalmente cambiata, per fare un esempio la densità di telecamere che ci controllano oggi è paurosa e dove non arrivano le telecamere arriva la tracciabilità dei telefonini, proprio per questo il desiderio di momenti liberatori soprattutto da parte dei giovani è fisiologicico. Tutto sta nell’interpretare questi bisogni e aspettare che da momenti di liberazione nascano desideri di libertà più articolate. Libri come i nostri sono strumenti che si spera vadano a ispirare ragazzi che non hanno potuto conoscere gli inizi del movimento.
P. D.: I nostri libri sono rivolti a questi ragazzi, che nella lettura e nelle presentazioni possono confrontarsi su temi scivolosi. Per esempio, il movimento è nato come radicale utopista libertario, però in certi frangenti può prendere – come è successo – una piega anarcocapitalista con quelli che organizzano i concerti per fare soldi, una contraddizione che c’è sempre stata. Recentemente è avvenuto un fatto inquietante. Un centro sociale occupato è stato a sua volta occupato per una festa rave, provocando molti problemi agli attivisti del centro, che nei giorni successivi hanno dovuto subire una dura repressione. In un momento come questo, dove nel pacchetto sicurezza del governo ci sono parti durissime dedicate alle occupazioni, forse sarebbe il caso che le zone temporaneamente autonome (i ravers) dialoghino con le zone permanentemente autonome (gli attivisti) come forme di autodifesa da questo governo nero. Invece si creano situazioni di conflitto che sono deleterie e non facili da ricomporre.
Pur sapendo che può essere limitativo, potreste fare un elenco – ad uso dei «non addetti ai lavori» – di dieci musicisti o musiche significative del movimento rave?
P. D.: Dreadzone, Fight the Power; Orbital, Satan; The Infiltrator, The Extraction; Mad Mike, Acid Rain; D’Arcangelo, Diagram VI; Zion Train, Babylon’s Burning; Aphex Twin, Elephant Song; Curley, Dancing with the Devil; M Lory D, Road Hog; Dj Scud, Are You Down (with the Underground)?.
T. D’O.: Evitando nomi sconosciuti direi KLF, Prodigy, Aphex Twin, The Orb, Spiral Tribe, Goldie, Autechre, Dizzee Rascal, The Streets, Sleaford Mods.