Festival bifronte, come vuole un titolo che tiene insieme ma separate quelle che fino ad ora sono state le due principali comunità linguistiche del Belgio, il Kunstenfestivaldesarts è un buon osservatorio delle tendenze in atto sulla scena internazionale, delle sue mutazioni, dei suoi nuovi protagonisti. È evidente per esempio l’emergere non solo di nuove esperienze ma soprattutto di una nuova geografia della creazione contemporanea, che si estende dal Brasile all’Africa centrale e fino a Singapore e dove spesso si mescolano le tracce. Così, da un punto di vista un po’ di parte, può apparire significativa l’assenza di qualsiasi artista italiano, come ormai avviene per altro in quasi tutte le principali manifestazioni teatrali europee. E stupisce per il peso che per tanti decenni ha invece avuto la nostra ricerca.

La commistione dei linguaggi sembra ormai un dato acquisito più che una tendenza in atto. Così come il moltiplicarsi delle esperienze che si richiamano a un teatro della realtà o come lo si vuole chiamare, il teatro che prende spunto dalla rielaborazione drammatica di eventi reali. L’una e l’altro si ritrovano in maniera quasi paradigmatica in Mitra del regista e cineasta belga Jorge Leon, in bilico fra performance e operina musicale, slittamenti corali nel melodramma e immagini filmate di carattere documentario. Sugli schermi che racchiudono le macerie di una demolizione, su cui si aggira un’enigmatica figura velata, Leon ricostruisce la vicenda di una psicanalista iraniana rinchiusa in un ospedale psichiatrico per una vicenda di liti condominiali, tramite il ticchettio delle email scambiate con un collega francese a cui aveva chiesto aiuto. Ma non si sfugge al dubbio che i linguaggi mixati siano davvero troppi.

Scena dalla piece Mitra di Jorge Leon, foto di Koenbroos

Altri sono i dubbi che suscita la nuova creazione di Milo Rau, ormai una star internazionale di casa a Bruxelles quanto contesa da tutti i festival più importanti – nei prossimi mesi lo spettacolo sarà ad Avignone e Romaeuropa. Come per il contagioso moltiplicarsi di un consenso preventivo che prescinde dall’oggetto concreto. La reprise è il primo tratto di una progettata trilogia che il regista e drammaturgo svizzero ha voluto intitolare Histoire(s) du théatre, alla maniera di Godard, per dire che le ambizioni non sono basse: si parla di rifondare la tragedia. E chissà se il successo atteso porterà, a moltiplicare anche i cast impegnati a far girare lo spettacolo.

Di Five easy pieces, La reprise mantiene inalterata la struttura drammaturgica. Si parte con una ri-creazione del casting che ha portato alla scelta dei tre attori non professionisti che innervano la compagnia. Ed è anche l’occasione per calarsi progressivamente nel contesto sociale della vicenda, la crisi che ha distrutto il tessuto industriale di Liegi, sfondo se non proprio motore dell’uccisione casuale e immotivata di un giovane omosessuale in una notte di assurda violenza. Alla rappresentazione di quella violenza si arriva per gradi, attraverso cinque scene che ne esplorano i margini prima di concentrarsi su un’interminabile «anatomia del crimine», dove tutto quello che avviene sulla scena viene proiettato ingrandito e dettagliato sullo schermo di fondo. Ma c’è qualcosa di troppo anche qui, come se Rau si sia condannato ad alzare ogni volta la posta della sfida al voyeurismo dello spettatore. La tragedia insegna che possiamo farne a meno.