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Anatomia dell’archetto

Anatomia dell’archettoIl compositore Giovanni Battista Viotti

Miti Come una sua impercettibile modifica ha cambiato il corso della musica classica, e non solo. L’intuizione di Giovan Battista Viotti assieme ad alcuni violini creati da Stradivari sono stati alla base di una recente mostra a Vercelli

Pubblicato circa un mese faEdizione del 7 settembre 2024

La storia della musica è anche storia di strumenti musicali, dove l’apporto di novità tecnico-meccaniche influisce enormemente sullo sviluppo dell’iter espressivo di intere correnti, diversi compositori, avanguardistici movimenti, grandi idee. Basta soltanto pensare al definitivo passaggio dal clavicembalo al pianoforte a inizio Ottocento, per capire una svolta radicale nella musica classica oppure all’amplificazione elettrica della chitarra a metà del XX secolo che, di fatto, crea un «inedito» strumento in grado di cambiare il volto alla popular music.

PARTITA A TRE
Anche una modifica in apparenza piccola, quasi invisibile ai non addetti ai lavori, sul finire del Settecento, cambia il corso dell’arte delle sette note: si tratta dell’archetto del violino che, grazie alle intuizioni del compositore Giovan Battista Viotti (1755-1824), passa dall’arco barocco, attraverso il «periodo di transizione» al cosiddetto «arco moderno», senza il quale oggi non esisterebbe quell’immenso patrimonio di musica colta, sinfonica e cameristica, che dall’Europa si diffonde in ogni angolo del pianeta già da metà Ottocento, fino a ispirare una quantità incredibile di autori e interpreti nei secoli XX e XXI.

L’evoluzione dell’archetto nei secoli

Per capire l’importanza dell’archetto è stata di grande aiuto la mostra Viotti e Stradivari. La ricerca della perfezione che si è svolta recentemente a Vercelli. Curata dal violinista Guido Rimonda, co-leader assieme alla moglie Cristina Canziani, dell’ensemble Camerata Ducale, la mostra ha regalato ai visitatori da un lato un percorso immersivo con video live-size della biografia viottiana, dall’altro l’esposizione di quattro preziosi violini Stradivari appartenuti al compositore e giunti espressamente da Giappone, Austria, Inghilterra. Su questi preziosi oggetti realizzati dal cremonese Antonio Stradivari nel 1704 e nel 1718 e già allora mitizzati per la qualità del suono (grazie a un artigianato meticolosissimo, dalla scelta dei legni alle prove di acustica), Viotti si pone il problema di come ricavare una sonorità più ampia, calda, armoniosa. E a questo punto avviene una sorta di partita a tre, fra Viotti, Stradivari e il violino stesso: sul liutaio lombardo (e numerosi discendenti) si sa tutto, o quasi; sulla storia del violino rimangono ancora forti dubbi circa le origini; e su Viotti per quasi due secoli cala il silenzio.
È davvero uno strano destino quello dell’inventore dell’archetto moderno, Giovanni Battista (o Giovambattista o persino Afredo Vincenzo e Alberto Fabrizio, a seconda dei documenti) nato in un paesino agricolo della pianura padana, Fontanetto Po: in mezzo alle risaie gli unici diversivi sono le feste religiose dove, grazie agli insegnamenti paterni, il ragazzo suona il violino, ricevendo, una domenica, l’attenzione di un vescovo che lo segnala a una marchesa, la quale, a sua volta lo porta con sé a Torino per farlo studiare con Giacomo Pugnani, maggior rappresentante del barocco musicale sabaudo. Di lì a pochi anni Viotti lavora presso le corti di mezza Europa quale virtuoso e compositore, applauditissimo, dai nobili e dai colleghi, persino dai borghesi in odore di rivoluzione, come accade a Parigi, la città, che, assieme a Londra, ne segna gli incerti destini degli ultimi anni di vita (non solo artistica). Accusato di giacobinismo dagli inglesi, in Francia è invece costretto a fuggire per la «Terreur», non certo tenera con gli artisti anche solo lontanamente simpatici ai monarchici. Il paradosso di quegli anni convulsi è che Viotti riesce addirittura a scrivere la musica della Marsigliese, ovverosia l’inno rivoluzionario ufficiale della République Francaise e ovunque, ancor oggi, simbolo sonoro di Liberté, Égalité, Fraternité; basti pensare in tal senso, a due sequenze audiovisive memorabili, una fiction, un documentario: da un lato il partigiano che canta «Alons énfants de la patrie…», spalleggiato da tutti gli avventori, eccetto lo sparuto gruppo di ufficiali nazisti, nel bogartiano Casablanca (1942), dall’altro la massa di studenti cinesi in coro per rispondere agli attacchi della polizia in piazza Tiananmen (1989) con fortunose riprese che fanno il giro del mondo.

NEL DIMENTICATOIO
La Marseillaise viottiana, suonata con l’archetto moderno, è però una scoperta tardiva, più o meno casuale; è sempre Rimonda a ritrovare nel 2016 un manoscritto e a farne un disco dove le note sono le stesse di quelle oggi cadenzate all’Eliseo, benché sull’argomento critici e musicologi d’Oltralpe ancora preferiscano tacere. Con ciò, forse a causa dell’imperante melodramma ottocentesco, su Viotti in Italia cala il silenzio per quasi tutto l’Ottocento e il Novecento, se si escludono le varie incisioni britanniche di alcuni concerti e soprattutto l’intuizione del professor Joseph Robbone (1916-1985), matematico e compositore di stile dodecafonico, che nel 1950 a Vercelli dà vita al Concorso Viotti, il primo in Italia, il secondo al mondo dopo Ginevra: una palestra per giovani pianisti e poi cantanti lirici, in grado di avere in giuria personalità come Arturo Benedetti Michelangeli o di bocciare future star quali Luciano Pavarotti (giunto solo al secondo posto).
Vercelli per il violino (e indirettamente per l’archetto) un primato lo riesce a vantare: abbracciato da due putti, la prima storica raffigurazione dello strumento, così come verrà tramandato ai posteri, si trova nella chiesa di san Cristoforo, osservando la parte in basso, al centro, della meravigliosa pala della cosiddetta Madonna degli Aranci dipinta fra il 1528 e il 1529, dal valduggese Gaudenzio Ferrari, massimo rappresentante del Rinascimento piemontese-lombardo. Lo stesso pittore si ripeterà, sei anni dopo, tratteggiando un angelo con violino nel monumentale affresco della cupola di santa Maria dei Miracoli a Saronno.

TRA LONDRA E PARIGI
Tornando all’archetto, fuori da Vercelli, dunque fra Londra e Parigi, Viotti è protagonista della rivoluzione dell’archetto, attraverso passaggi graduali, in anni tumultuosi, quando insomma si adoperano archetti all’italiana, alla tedesca, alla francese oltre diversi modelli sperimentali anche fra varianti scartate e tentativi maldestri. Il compositore a un certo punto esclama: «Le violon c’est l’archet (il violino è l’archetto)», intendendo dire che – per affrontare il modo di suonare il violino – occorre partire dall’arco; e dal suo discendono tutte le scuole violinistiche moderne. Grazie a Viotti, i liutai cominciano a migliorare la resistenza alla rottura dell’asticello di legno, conferendo maggior stabilità all’arco mediante una forma leggermente concava, con la testa più alta e con l’uso del legno di pernambuco. Del resto la personalità del compositore fontanettese è in rapporto diretto all’abilità virtuosistica, a sua volta esaltata dalla bravura di sfruttare le potenzialità del nuovo archetto. Come sottolinea Guido Rimonda nel catalogo che accompagna la mostra: «Se la forma-concerto elaborata da Viotti riuscì ad anticipare il concerto di Beethoven, aprendo un ciclo che il compositore tedesco avrebbe chiuso vent’anni dopo, fu anche e soprattutto perché nello stile viottiano era centrale lo studio sulla funzionalità dell’arco, che portò il piemontese a definire nuove articolazioni e a creare una nuova cantabilità, basata sulla possibilità di ‘sostenere’ il suono con frasi più lunghe e articolate. Qui sta la genialità di Viotti: innestato su una personalità poliedrica e intuitiva, il fascino di un archetto mai visto prima lo spinse non solo a stabilire inedite forme di virtuosismo, bensì a formulare pensieri differenti e ad aprire nuovi orizzonti musicali».

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