La proposta di «coalizione sociale» che la Fiom ha scelto come indirizzo strategico è un fatto di estrema rilevanza, forse un salto di qualità nella difficile via italiana alla costruzione di un soggetto politico alternativo.

Compito assai arduo perché in gran parte inedito, visto che stiamo percorrendo un itinerario aperto dopo la fine di una storia durata un secolo e mezzo: la storia del movimento operaio. Nello stesso tempo, però, la storia del movimento operaio e quella in cui ora ci troviamo a vivere ed operare, sono due diverse fasi di una stessa vicenda, non di una storia nuova. È la storia del capitalismo dell’età contemporanea, delle forme del suo mutamento incessante e delle sue lunghe e profonde continuità. È la storia delle antitesi e delle loro forme strettamente connesse a quei processi di mutamento. È la storia della lotta di classe, la cui forma odierna è negata in particolare da chi la conduce.

In questo nostro presente, insieme a profonde differenze, sono riscontrabili analogie importanti con alcune temporalità che dal punto di vista cronologico appaiono assai lontane.
Come nella prima metà dell’Ottocento vengono espugnate, nella logica del laissez faire, tutte quelle protezioni giuridiche che ostacolano la riduzione del lavoro umano a nuda merce. Come nella seconda metà dell’Ottocento le sparse membra dell’antitesi sono alla ricerca di una coniugazione forte tra un soggetto sociale, che allora era definito con sufficiente chiarezza, ed i modi della rappresentanza politica.

Alla fine del XIX secolo tale coniugazione si era concretizzata in quelle forme «partito» e «sindacato» che, in linea molto generale, hanno prevalso per tutto il Novecento.
Due aspetti di quegli esiti vanno sottolineati per cogliere meglio i nessi che emergono dalla proposta di «coalizione sociale». Il primo riguarda il «partito». Nel contesto di fine Ottocento tale modello socialista non solo rappresenta l’indice più alto della modernità politica, ma è anche quello in cui meglio si esprime la democrazia organizzata dei subalterni. Il secondo riguarda il sindacato. L’unionismo di allora non rimaneva certo confinato nella sfera «economica», come si diceva, bensì rivendicava, e svolgeva un fondamentale ruolo politico.

Persino nella Germania dei successi politico-elettorali della Spd, il sistema di relazioni tra partito e sindacato, tra partito ed Arbeiter-vereine, non prevedeva alcuna scala di priorità. Ancora nel 1893 si potevano leggere nei documenti del congresso di Colonia del Partito socialdemocratico frasi come queste: «L’organizzazione operaia è il miglior strumento di agitazione politica e una scuola di gran lunga migliore e molto più adatta dell’organizzazione politica per fare dell’operaio un compagno dal carattere fermo e dotato di spirito di sacrificio. L’organizzazione politica non pretende infatti dai suoi membri quanto quella sindacale (…) richiede che l’iscritto metta in gioco nelle battaglie salariali tutta la sua esistenza, tutta la sua persona per il bene della collettività».

Le ragioni storiche che nel corso del Novecento hanno modificato il rapporto partito-sindacato e che addirittura hanno messo in ombra il fatto incontrovertibile che le lotte sociali sono di per sé lotte politiche, sono venute meno. In un contesto del tutto diverso anche oggi l’area dell’antitesi si presenta come un insieme, o meglio un multiinsieme, affatto destrutturato. In un contesto del tutto diverso anche oggi è fortissima la tensione verso un soggetto «politico» in grado di esercitare davvero il ruolo dell’antitesi. Ovviamente non si tratta di ripetere l’itinerario che più di un secolo fa portò alla prevalenza dei modelli organizzativi secondo-internazionalisti, ma di riflettere su alcuni nodi di quel percorso.
Innanzitutto sul fatto che il partito politico può essere anche luogo di democrazia organizzata e che dunque è meglio ragionare sulle forme partito, piuttosto che sulla negazione del partito. E ragionare sul fatto che anche l’unionismo, nella sua forma sindacale, è stato, ed è, soggetto a logiche oligarchiche e autoreferenziali. Continuare a contrapporre «coalizione sociale» a «coalizione politica» (lista Tsipras?) non ha alcun fondamento né analitico, né politico.

Poi avere piena consapevolezza che l’itinerario che ha portato alla costruzione di un soggetto politico (partito, sindacato, movimento cooperativo) in grado di contrastare con qualche efficacia lo svolgimento delle «leggi naturali» di economia e rapporti sociali, è stato percorso da forze assai diverse senza nessuna preventiva esclusione. C’erano davvero tutti: forme di unionismo di ogni genere, orizzontali, verticali, società di mutuo soccorso, partiti politici in fieri e associazioni politiche che il Marx della I Internazionale aveva chiamato «sette comuniste o socialiste». Tutte queste forme si sono ridefinite nel corso del processo.

Vedo invece che alcune delle forze presenti oggi, i partiti politici, e la lista Tsipras ormai assimilata ad un partito, sono diventati «zavorra» di questo progetto perché non «avrebbero capito che in una coalizione sociale la dimensione politica è implicita» (Viale, «Huffington Post», 16 marzo). Ora non solo questa è un’ovvietà che i militanti ad ogni livello delle «zavorre» hanno capito da tempo, ma si sono anche provati ad articolarne il concetto in numerosissime sedi, politiche, scientifiche ed in interventi pubblicistici. Solo che magari queste «zavorre», insieme alla consapevolezza dei limiti fortissimi delle strutture organizzative (partiti in questo caso) in cui militano, al di là delle apparenze e della retorica sulla molteplicità e vitalità innata nei «movimenti», hanno un’idea meno semplicistica del processo in corso. Si provano a fare analisi che tengano conto proprio della molteplicità dei tempi che vi convergono, e quindi della diversità dei livelli e dei ritmi di movimento delle forze in campo. Nessuna esclusa.