Nel prossimo futuro forse guarderemo agli utenti dei social media come oggi guardiamo i fumatori, persone che sanno di fare qualcosa di sbagliato eppure continuano a farlo. A pensarci bene il momento potrebbe non essere troppo lontano.

È stato proprio il caso Cambridge Analytica ad aver scoperchiato il vaso di pandora della dipendenza da social: sappiamo che i dati conferiti vengono usati per creare una platea di potenziali acquirenti per gli investitori pubblicitari, renderci docili consumatori, conoscere i nostri gusti politici e orientarli a colpi di fake news, slogan e black advertising, ma continuiamo a regalargli preziose informazioni sotto forma di tag, like, link, foto, video e messaggi. In realtà siamo già alla fase due: i nostri dati vengono usati per allenare le intelligenze artificiali che tra poco prenderanno il nostro posto nei compiti intellettuali dopo aver già sostituito tornitori, magazzinieri e autisti.

Nonostante i ripetuti databreach Facebook continua a macinare utili e i numeri dell’abbandono del social network più popoloso di tutta la Cina, non sembrano impensierirlo: gli scandali e le violazioni della sicurezza hanno appena eroso la sua base.

In Italia però, secondo il Censis, 9 italiani su 100 non si fidano più di Facebook come canale informativo.

Mentre gli effetti di Instagram sono ancora poco studiati e i gruppi su WhatsApp pure, abbondano quelli su Twitter, considerata dagli utenti la piattaforma più affidabile dove esercitare la propria retorica e acchiappare consensi.

Eppure l’ultimo studio del Pew Research Center ci dice che la maggior parte degli utenti americani di social sa dell’esistenza di programmi automatici, i bot, che simulano comportamenti umani come replicare ai post o produrli per target specifici e che non si fidano di quei messaggi.

Nel frattempo arrivano, come se piovesse, le conferme scientifiche che l’uso compulsivo di smartphone, tablet e pc per accedere alla rete e in particolare ai social network, ai motori di ricerca e ai social media sta determinando un cambiamento antropologico come ha bene raccontato l’ultima puntata di Presa Diretta su Rai3.

In sintesi: le persone sono sempre meno capaci di distinguere le notizie vere da quelle false, si distraggono continuamente, tendono a rinchiudersi in una comfort zone dove sanno che le loro idee non saranno verificate, e non capiscono le informazioni complesse. Un rischio per la democrazia che si basa sul confronto, sul rispetto della diversità e sulla tolleranza: basta andare sui social per accorgersene. In fondo i social sono fatti per rappresentarsi, prendere posizione e non per dialogare.

Perciò per affrontare il problema nel breve termine è nata un’iniziativa dal nome Social Science One, una partnership tra università e industria per analizzare la ricchezza informativa accumulata dalle aziende e studiare gli «effetti dei social media su democrazia ed elezioni».

Sarà finanziata da sette fondazioni non profit e basata su un sistema di peer-review accademico. Una commissione di professori identificherà i set di dati rilevanti, e dopo una valutazione scientifica ed etica li pubblicherà.

«Dal punto di vista delle scienze sociali l’iniziativa mira a fornire l’accesso alla più ampia e completa base di informazioni mai utilizzata per studiare i social media e il comportamento umano in generale».

La ricerca inaugurale ha come partner principale Facebook che però, dicono, «fornirà i dati dei suoi utenti in maniera trasparente e rispettosa per la privacy».