Non è novità dire che l’opera lirica trova fecondi e nuovi indirizzi estetici combinandosi e talvolta diluendosi con il teatro e i nuovi media. La storia medesima del mezzo sembra darne conto in un possibile canone, al momento più ipotetico che realmente trascritto. Dunque, in attesa di una vera e propria sistemazione storico-critica di questi primi anni ’20 del XXI secolo, tali attraversamenti, compiuti da un pugno di coraggiosi ed intraprendenti registi e collettivi, si manifestano anche nella proposta di titoli poco frequentati che innestano e irradiano nelle tessiture drammaturgiche e scenografiche di queste opere temi e urgenze sociali, economiche e ambientali da collocare sempre più all’ordine del giorno.

Uno di questi tentativi di interpretare la contemporaneità emerge soprattutto attraverso “testi” ai quali applicare calamite che attirino a sé altri testi visivi, pittorici, letterari, prelevati soprattutto dall’antichità al Rinascimento o tutt’al più passate al vaglio neoclassico del settecento-ottocento goethiano. Tale è la prassi che innerva e sostanzia tutto il lavoro del collettivo Anagoor, Leone d’Argento alla Biennale Teatro 2018, è già “autore” di due regie liriche con l’irriverente Faust di Gounod dello scorso anno, censurato in alcuni parti video, e con l’oratorio profano Das Paradies und die Peri di Robert Schumann, diretto da Gabriele Ferro e andato in scena al Teatro Massimo di Palermo sul finire dello scorso ottobre; è stata quest’ultima occasione siciliana a dare il là per una conversazione ad ampio raggio con Simone Derai e Marco Menegoni che della formazione veneta sono – prendendo in prestito le parole di Carmelo Bene – “l’aldilà e l’al di qua” della scena, al netto dell’interscambiabilità dei ruoli e la stretta connessione di tutti i mestieri dello spettacolo che si realizzano all’interno di Anagoor.

“Das Paradies und die Peri” di Schumann è la vostra seconda regia d’opera, dopo lo “scandalo” del Faust di Gounod. Com’è arrivata questa commissione su un lavoro di Schumann poco frequentato dai cartelloni dei nostri teatri nazionali?
Simone Derai: La Commissione della “Peri” è nata all’interno della direzione artistica del Teatro Massimo. Gabriele Ferro desiderava chiudere il suo mandato quinquennale di direttore artistico proprio su Schumann ed in particolare su quest’oratorio profano. Dici bene, la “Peri” è stata poco rappresentata in Italia, curiosamente si fa riferimento ad una versione catanese.

Ancora una città siciliana che si mostra innamorata di Schumann. Poi di un Schumann “minore”. Proprio curiose queste coincidenze.
Simone Derai: Sì. Era una versione con la Fracci, tra l’altro. Ma, è lo stesso Schumann che definisce la sua opera come ibrida, che ha il teatro dentro e al medesimo tempo la lezione di Goethe.

… è un ininterrotto fil rouge il vostro nuotare gravido nell’opera e nella biografia del poeta tedesco.
Simone Derai: Come dicevo Schumann fa propria la lezione di Goethe e approda ad una cosa inaudita. La “Peri” trascende la forma del concerto e si appropria della componente drammatica. La conseguenza logica è stato il pensare un orizzonte visivo in cui iscrivere la stessa visione della “Peri”.

Da qui l’esigenza del viaggio, di poter vedere i luoghi descritti dall’opera. Di immaginare l’oggi della “Peri”, il suo cammino di “fata” cacciata dal Paradiso e decisa a ritornarvi, pur dovendo affrontare prove durissime che la mettono di fronte alla tragedia storica e di redenzione del genere umano.
Simone Derai: è stato un viaggio concreto, banalmente geografico nelle terre attraversate dalla Peri. Interamente filmato e successivamente trasfigurato nel montaggio video che sormonta la scenografia costruita in teatro …

… che richiama le sponde del Gange, altro viaggio da cui il collettivo ha riportato non poche suggestioni …
Marco Menegoni: C’era quest’idea di un “gatt” che aggettasse il coro e i protagonisti dell’opera nelle braccia dell’orchestra. Dall’alto la discesa di questo tessuto che termina in un abbraccio si può vedere in tutta la sua totalità. E ci sono anche i nostri abituali riferimenti pittorici che appartengono alla tradizione veneta. Giorgione alla base, ovviamente Tintoretto.
Simone Derai: E il simbolico riferimento pasoliniano della ricerca del volto e dello sguardo sostiene l’intera ricerca della “Peri” per il suo ritorno in Paradiso.

Ripartiamo però dal viaggio e dalle modalità con cui l’avete affrontato, andando per territori a rischio o in guerra …
Simone Derai: Lo scorso anno in luglio, nel bel mezzo dell’Orestea, ci si è aperta l’agenda per il viaggio concreto in Oriente. I primi mesi abbiamo studiato l’Iran e le tappe del viaggio che oltre a toccare il Nord del Golfo Persico, siamo stati in Turchia percorrendo i confini di guerra della Siria. Lì abbiamo constatato, aiutati da Emanuele Confortin, giornalista con grande esperienza di mediatore culturale, affiancato da una giovane donna iraniana, abitante nell’asolano, perché volevamo fortissimamente entrare in contatto con l’orizzonte sociale che ci si è paventato poi davanti.
Marco Menegoni: Dovunque siamo andati, l’accoglienza è stata commovente; ha giovato in tal senso il contatto diretto con la popolazione.

Ciò si intuisce dalla lunga sequenza di teoria di volti che si succedono sul telero. Qui s’intravede la lezione goethiana di abbracciare tutti gli occidente e gli oriente possibili, travasato dal libretto originario della “Peri” scritto da Schumann letteralmente sul libro di Thomas Moore.
Simone Derai: è nelle nostre corde il cercare di superare steccati ideologici e religiosi per andare a trovare una condizione universale che abbiamo potuto vedere e toccare negli sguardi ingenui, gentili, ecco accoglienti di giovani e bambini iracheni e siriani, tagliati fuori dalle loro terre, e allo stesso tempo capaci di vedere nel diverso e nella tragedia quella condizione universale che accomuna tutti.

Un Oriente differente, e molto, rispetto a quello mediatico.
Simone Derai: Totalmente inedito per noi abituati a pensare l’Oriente, a vederlo attraverso categorie occidentali o solo attraverso la tv e le opinioni dei media. Una nota di speranza è data però dalla sequenza sentimentale girata nel Museo Egizio di Torino.

Nella vostra officina di lavoro date molto spago alla riflessione sull’immagine e alla sua collocazione sia nello spazio sia nei suoi riferimenti più prossimi alla luce. Oltre alla capacità di penetrare nei segreti di un testo suscitando appigli anche alle prossimità biografiche degli autori. L’avete sperimentato in teatro ed anche in “Faust”, l’avete riproposto anche nella “Peri”.
Simone Derai: Nella “Peri” abbiamo affrontato la profondità del palco sfruttando i punti di fuga consentiti dal posizionamento dello schermo non in fondo ma calato in mezzo e al di sopra della scena. Con questo tessuto come detto prima da Marco di circa 400 mq che si cala fino all’orchestra, abitato nei momenti di passaggio e transito del coro. Il richiamo pertinente è alle vergini tizianesche e alle scene di massa di Veronese. Si è sempre in un ambito di riferimento pittorico veneto. Che totalmente ci appartiene. Al pari dell’incrociare i tempi e le azioni dell’opera, soprattutto nel suo farsi e divenire. Da qui l’innesto di momenti intimi di coloro che stanno costruendo l’opera. Schumann è ritratto con la moglie e i figli in un momento di serenità, molto imperfetta perché subito dopo arriverà la tempesta che lo annienterà.