Bambina nel Messico povero e ancora rivoluzionario di Lazaro Cárdenas, giovane donna in quello proiettato a forza nel capitalismo moderno da Miguel Alemán, scrittrice reticente, pubblicata tra gli anni sessanta e settanta e poi lungamente ignorata da critici ed editori, Amparo Dávila è scomparsa pochi mesi fa, con la consapevolezza di aver raggiunto nell’estrema vecchiaia un riconoscimento unanime e un pubblico ben più vasto della ridottissima cerchia di appassionati lettori che ne custodivano i libri come reliquie.

Prima grazie a una nuova attenzione accademica, poi attraverso la pubblicazione di tutta la sua narrativa da parte del Fondo de Cultura Económica (Cuentos reunidos, 2009), nel volgere di un decennio Dávila si è trasformata in gloria nazionale: giusta resurrezione cui non è estranea quella che si potrebbe definire una prospettiva di genere, come ricorda Alberto Chimal nella prefazione a L’ospite e altri racconti (pp. 137, € 16,50), breve antologia appena pubblicata da Safarà nella accuratissima traduzione di Giulia Zavagna.

Un quasi femminismo
«Non esagero se dico che Amparo Dávila investigava già i meccanismi della macchina femminicida che in Messico uccide e annienta moltissime donne. Un classico è tale quando possiamo leggere il presente attraverso le sue pagine», ha scritto a proposito di L’ospite Cristina Rivera Garza, romanziera, saggista e critica messicana che dell’autrice si è letteralmente «appropriata», facendone il personaggio principale, con tanto di nome e cognome, del romanzo Il segreto (Voland 2010). Non a caso, numerosi e recenti studi analizzano alla luce del femminismo i racconti di Dávila (che, al pari di altre grandi autrici latinoamericane, ha prodotto assai poco: tre raccolte in prosa, tre di versi, un saggio), sottolineando sia lo stretto rapporto della sua scrittura con temi quali il corpo, la sessualità, il desiderio, sia il disperato tentativo dei suoi personaggi femminili di sottrarsi agli imperativi e agli stereotipi di una società profondamente patriarcale.

Quasi inconsapevole e tuttavia inevitabile, la rivolta ha un prezzo altissimo, che può essere la follia, l’autodistruzione o una violenza di cui le protagoniste non si sapevano capaci: una madre riluttante si dà fuoco per non cedere all’assalto di creaturine striscianti sorte dal suo embrione abortito; due donne terrorizzate si alleano per uccidere un ospite feroce e misterioso, imposto da un marito padrone; il sogno angoscioso di una ragazza si trasforma nella realtà di un cuore strappato…

In un terreno di confine
Lette in questa chiave, le storie sono da intendere come espressione della collera e della frustrazione di chi non può decidere né agire, e sembrano quasi annunciare le voci e le rivendicazioni delle nuove scrittrici latinoamericane, che con sorprendente energia vanno abbattendo gli ostacoli con cui hanno dovuto misurarsi le loro «madri» letterarie. Ma fermarsi a una lettura di genere – peraltro rifiutata dall’autrice, che diceva di «rispettare le opinioni della critica senza condividerle» – è riduttivo almeno quanto adottare l’opinione più largamente diffusa, che vede nell’opera di Dávila un esempio di «letteratura fantastica» nella sua variante gotica.

Ha ragione Alberto Chimal, quando sostiene che la narrativa della scrittrice messicana si oppone di per sé alle tassonomie critiche e alle classificazioni assolute: la naturalezza con cui combina quotidianità e orrore, riversandoli l’uno nell’altro, e la sua abilità nel servirsi del non detto, la rendono sufficientemente originale da situarla in un territorio di confine, simile a una ragnatela di silenzi ancora parzialmente inesplorata (secondo Irene González, del resto, sarebbe una vera e propria «poetica del silenzio» a caratterizzare la proposta estetica dell’autrice), e suggeriscono piuttosto di affrontarla da una pluralità di prospettive.

Quello di Dávila è un mondo domestico e borghese, concreto e grigio, che all’improvviso vira al nero più cupo: una promessa sposa è chiusa in una cella (prigione, manicomio, il castello di un vampiro?) ad aspettare un visitatore che forse è solo un desiderio erotico represso; due inarrestabili e sadiche creature (scimmie, troll, bambini odiosi?) devastano la casa e la vita di chi le ha ricevute in eredità; la cucina si rivela stanza delle torture, mentre esserini dagli occhi imploranti (alieni, animaletti, bizzarri molluschi?) vengono bolliti vivi per diventare pietanza prelibata; un uomo ricco assiste al proprio funerale (un sogno, una premonizione, un avvertimento?), abbastanza misero da rivelare l’astio della moglie tradita e dei figli oppressi.

In spazi riconoscibili e convenzionali, governati da un malinconico e soffocante decoro, l’autrice si affretta a inserire un elemento perturbante o terrifico: visioni oniriche e deliri, l’insinuarsi ossessivo della morte, la presenza di creature mostruose e indefinite dai vaghi tratti animaleschi (occhi gialli o sporgenti, voce che gracida o ruggisce, rapide zampate, un molle strisciare), ma non prive di inquietanti caratteristiche umane.
La nota di fondo è un’ambiguità resa estrema e destabilizzante da quello che Dávila non ci mostra, da ciò che si rifiuta di dire o di spiegare, dagli «spazi in bianco» che non cancellano la realtà, ma la tingono di minaccia e di incertezza.

Semplicità ingannevole
Per contrasto, la struttura dei racconti è semplice e solida, quasi tradizionale, con rare concessioni a tecniche narrative come la frammentazione o l’ellissi, care agli autori della Generación de Medio Siglo, di cui Dávila non fece realmente parte, non solo per una personale ritrosia, ma anche su consiglio di Alfonso Reyes, figura capitale della cultura messicana, del quale fu segretaria e allieva.

Lo stile essenziale, trasparente, sobrio, con rare venature poetiche, prevede un uso estremamente parco delle descrizioni e qualche rapida, folgorante immagine. Ma questa esibita semplicità è in realtà ingannevole e sembra occultare una sorta di corrente sotterranea, di scrittura «invisibile» cui l’autrice ha affidato, forse, le sue più segrete intenzioni: far sì che reale e fantastico si ibridino e si reinventino reciprocamente, obbligando il lettore ad ampliare il concetto di realtà e a includervi «il lato dell’ombra, che sempre ci accompagna».