Esiste forse un’espressione con la quale racchiudere la poliedricità di una vita che attraversa buona parte del Novecento, per arrivare ad oggi: «comunità etica». Non contrassegna un rigido sistema di “valori”, non costituisce un paradigma inossidabile, soprattutto non è una posa ad uso e consumo del momento. È semmai il bisogno inesauribile di una ricerca di significato per l’esistenza medesima, che cerca poi di farsi lingua di condivisione, rivolgendosi a chiunque intenda farsene interlocutore. Non è quindi falso ecumenismo, non costituisce un esercizio di equilibrismo di convenienza, non è ricerca di un «dialogo» cacofonico, laddove invece il senso delle cose si perde in una sorta di ossessivo rumore di fondo, nei colloquialismi di circostanza, nelle indistinzioni di comodo. La sua radice è la connessione continua tra auto-riflessività («chi dunque io sono e perché sono me stesso e non altri?») e ricerca di raccordi, scambi e reciprocità con il mondo della vita collettiva, quella degli esseri che sono umani poiché portano inscritto in sé stessi il codice di una profonda moralità. Quest’ultimo, peraltro, non si dà mai da solo ma va cercato continuamente, nonché rinnovato costantemente.

Stiamo parlando di Amos Michelangelo Luzzatto, già presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane tra il 1998 e il 2006, oltre a molto altro. La sua figura è, al medesimo tempo, specchio e sistema a cerchi concentrici dell’ebraismo così come dell’intellettualità italiana. Specchio poiché riflette tutti i passaggi più importanti della storia antifascista e poi repubblicana del nostro Paese. Sistema a cerchi concentrici in quanto, nella sua esistenza, si sono intrecciati i temi delle diverse identità che, in un cittadino emancipato, tale poiché libero da obblighi che non siano quelli dettatigli dalla propria coscienza, possono vivacemente coesistere nel medesimo tempo. Luzzatto era un figlio della Diaspora. Nella cognizione del suo essere anche parte di una minoranza, si è interrogato costantemente su quale sia la natura del pluralismo che deve accompagnare le maggioranze nei regimi democratici.

Alla radice delle riflessioni di Luzzatto c’è sempre stata la ricerca dei fondamenti etici della convivenza, di contro alle tentazioni e alle derive fondamentaliste che invece cristallizzano, sequestrandolo, una parte crescente del discorso pubblico. Per tutta la sua esistenza ha quindi espresso l’adesione ad una profonda radice politica, quella di sinistra. Ha ritenuto che proprio in virtù, e non malgrado, le vicissitudini vissute da quel composito campo politico, una tale appartenenza richiedesse di continuare ad essere valorizzata. Nonché rivendicata. Poiché non esiste cultura se non c’è politica. E viceversa. In Luzzatto, infatti, si riannodavano più fili che, oramai da tempo, non a caso i suoi stessi figli hanno continuato a tessere. Laddove il legame famigliare, secondo una tradizione morale umanista, oltre che tipicamente ebraica, è non solo trasmissione ma continuazione e progressione. Peraltro, la sua visuale illuminista – che sommava in sé una sorta di sguardo ispirato al profetismo laico, la riservatezza del sapiente, la pacatezza del giudizio che, per essere formulato, richiede un lungo periodo di formulazione – si incontrava con quella che era la precisione del medico chirurgo. Poiché tale era la sua professione, coniugando le «due scienze», quelle umane e quelle naturali, e usando di esse le intelaiature concettuali per una sorta di contaminazione reciproca.

Anche se in Italia è stato conosciuto soprattutto come esponente di primo piano non solo dell’ebraismo peninsulare ma anche della società civile impegnata, così come dell’intellettualità presente nel dibattito pubblico. Basti pensare ai molti libri che ha scritto e licenziato nel corso di un’intera esistenza, alle collaborazioni editoriali, allo stesso peso che dava alle parole, intese come punti di partenza e non come dichiarazioni di principio. La genealogia familiare, peraltro, testimonia di un altro aspetto, che da sempre si riflette nella sua pervicace radice diasporica: nessun essere umano può ritenersi al riparo dal considerarsi figlio di una qualche migrazione. Nel passato, con il presente, senz’altro per i tempi a venire. Forse, la stessa solidità di impianto e radicamento veneto e veneziano, quindi in prossimità del mare, ne esprimeva anche la propensione ad osservare il mondo come una serie di interconnessioni, dove si può avere un’identità solo se si è in movimento. Con i piedi e con la testa. Amos Luzzatto, infatti, è sempre stato indisponibile a qualsiasi reificazione della terra, estraneo all’esaltazione di qualsiasi nazionalismo di ritorno, allergico al particolarismo identitario (oggi invece molto in auge), consapevole che se si vive in pienezza si cambiano aspetti importanti di se stessi, senza dovere gettare alle ortiche ciò che si è già stati. Identità è propriamente una tale disposizione d’animo: un esercizio di continua interpretazione di ciò che ci circonda.

Il rapporto con i testi della tradizione ebraica, di cui era uno degli interpreti laici, quindi, non rimandava solo al passato ma soprattutto alla comprensione dei segni del tempo corrente. Se il ramo paterno aveva intrecci che dall’Europa di lingua tedesca portavano all’Italia settentrionale (il Friuli, Trieste, Padova) quello materno derivava dal magistero del nonno, Dante Lattes, una delle maggiori figure dell’ebraismo contemporaneo. Ciò che ad oggi ai molti spesso sfugge è che, quando ci si richiama a tali antecedenti, non si tratta di fare l’elogio o il panegirico di un individuo oppure di un gruppo, celebrandone un qualche elitario blasone, magari fondato su una sorte di aristocrazia del pensiero. L’urgenza, semmai, è quella di capire come la logica della cittadinanza faccia sì che in ogni maggioranza coabitino e interagiscano, in quanto suo tessuto connettivo, quelle individualità e soggettività che sono portatrici di storie che incorporano in se stesse anche l’esperienza dell’esclusione.

Amos Luzzatto, nato nel 1928 a Roma, dovette infatti abbandonare l’Italia a seguito delle leggi razziste mussoliniane, riparando nella Palestina mandataria. In Italia tornò a seguito della Liberazione, nel 1946, dove proseguì nei suoi impegni, di studio e poi di lavoro, come anche nella vita politica di ogni giorno. Proprio in tale veste si adoperò per dare corpo ad un’idea che lo accompagnò per tutta la vita, ossia la dimensione costituzionale della libertà e della giustizia sociale. Per lui, ciò comportava garantire agli ebrei italiani un saldo ancoraggio alle istituzioni democratiche, in uno scambio reciproco. Poiché nessuno, da sé, può pensare di essere sufficiente. Si è figli di una qualche tradizione ma anche del proprio tempo. In un suo libro, uscito poco più di dieci anni fa, che si intitola significativamente «il posto degli ebrei», si interroga su quale sia il luogo del radicamento, identificandolo non con una dimensione geografica ma con le categorie dello spirito. Ciò che di lui resta, quindi, non è tanto un cittadino del mondo, ma quella parte di un mondo, raccolta nella coscienza di un individuo, che cerca di essere abitato da cittadini, consapevoli dei loro diritti e delle opportunità, come anche degli obblighi, che ad essi si associano.