ICi sono immagini e figure che ritornano costantemente nell’opera di Amos Gitai a cominciare dal paesaggio che è quello del suo paese, Israele, attraversato nei suoi miti per restituirne una narrazione capace di rifondarli. E un’esperienza collettiva che vive anche in quelle privatissime, la sua famiglia, il padre Munio architetto del Bauhaus che lasciò l’Europa per salvarsi dal nazismo, la madre Efratia nata in Palestina che continuerà a mantenere vivo lo sguardo sull’orizzonte del Mediterraneo e di una diaspora possibile. Li ha raccontati Gitai nei suoi film, nelle installazioni, nei libri (da Carmel a Lullaby to my Father ), e i loro vissuti si sono fatti origine di un diario del Novecento, di quella terra, delle sue promesse e dei suoi cambiamenti non sempre felici che hanno tradito il sogno delle utopie. Ma è davvero possibile un’utopia?

«Il Paese che sei te lo porti dietro anche quando lo critichi, ma criticare il potere è un dovere per un artista che non si deve dimenticare» dice spesso Gitai. Critico lui lo è sempre stato nel ripercorrere la storia israeliana, che esprime al tempo stesso la geografia del mondo, il presente dentro il suo passato. Lui che è sempre stato apolide, e vive tra Tel Aviv e Parigi, e prima ancora anni fa a New York, non lo ha mai abbandonato investigandone quasi psicoanaliticamente i traumi attraverso queste esperienze, che sono dei genitori e poi le sue: le origini, l’esilio, il 1948, le guerre, i confini senza dimenticare lo specchio dell’Europa. Fino a quell’altro grande trauma che è stato l’omicidio di Rabin investigato nel magnifico Rabin, the Last Day le cui immagini hanno preso anche altre forme, come spesso accade nella ricerca di Gitai, e sul quale è ora tornato in un libro, Yitzhak Rabin. Cronache di un assassinio (La Nave di Teseo).
Architetto anche lui che dice di sé: «non ho mai passato un ’ora in una scuola di cinema», Gitai ha sempre messo in campo una forma artistica che vuole interrogare piuttosto che confezionare risposte, uno sguardo che allena le sue immagini in un corpo a corpo con la realtà e la sua coscienza, muovendosi per questo tra diverse espressioni – cinema, teatro, scrittura, installazioni. La conversazione che segue si è svolta a Milano, dove Yitzhak Rabin. Cronache di un assassinio è stat presentato (alla Triennale, insieme a Stefano Boeri e a Gad Lerner). Nel frattempo Gitai è rimasto in Italia per preparare a Firenze la mostra Promised Lands che definisce «una riflessione a partire dai miei lavori teatrali e cinematografici, sui destini umani, la storia e il presente nelle varie lingue parlate nell’area del Mediterraneo. Per realizzarla sono partito dal luogo, Palazzo Vecchio, dalla sua storia e dal rapporto con l’ambiente circostante». E che effetto ti fa inaugurarla mentre inizia in Europa una nuova guerra? «È terribile vedere come in un modo così cinico un regime autoritario sta bombardando un altro paese. E non è accettabile che le democrazie occidentali accettino un’aggressione unilaterale senza fare nulla».

La tua ricerca artistica è intimamente legata alla storia e al presente di cui cerca le connessioni meno visibili. In che modo lavori per provocare queste relazioni?
Quando preparo un film o una regia teatrale o una installazione parto da una domanda e un po’ come fanno i matematici cerco di costruire un procedimento per rispondere. Uso lo spazio per organizzare le conoscenze, raccontare la realtà è la forza dell’artista in cui si esprime una preoccupazione civile; senza questo un’opera d’arte non ha senso. Da architetto mi è impossibile separare l’architettura dalla dimensione sociale, visto che nasce da una esigenza primaria dell’umanità, quella dell’abitare. Ma se la immaginiamo come un semplice esercizio formale perde la sua forza. Lo stesso vale per il cinema: oggi con la crescita dello streaming ci troviamo davanti a prodotti sempre più semplicistici e questo produce una crisi.

«Promised Lands», la mostra che apre oggi a Firenze, costruisce un attraversamento di molti materiali della tua opera in cui ritornano delle figure centrali: i tuoi genitori, Rabin e il suo assassinio. È come se dicessero dei traumi chiave per Israele ma anche per tutto il resto del mondo.
Ho voluto interpretare l’omicidio brutale di Rabin con il cinema chiedendomi perché era accaduto. Quale rischio, quale minaccia rappresentava la sua politica nel Medio Oriente con la volontà di lavorare su certe questioni economiche o che riguardavano i confini? Le sue proposte non erano forse delle soluzioni ma provavano a cercare un modo per convivere. Contro di lui invece è stata montata una vera e propria campagna d’odio, a cominciare da colui che ha preso il potere alla sua morte (Netanyhau, ndr), un vero manipolatore. Hanno armato la mano del giovane assassino denigrando Rabin, attaccandolo ogni giorno perché voleva «cedere la terra», e lui a questa campagna d’odio aveva sempre risposto con spirito. Prima di lui non si era nemmeno ipotizzato un dialogo coi palestinesi, e quando è stato ucciso siamo tornati allo stesso punto. Per questo torno appena posso sulla sua figura e cerco di tenerla viva continuando a ascoltare quanto accade intorno.

Dunque la memoria, che è la materia della tua opera, assume una forma nuova a ogni passaggio.
Perché è fondamentale indagare la memoria, costruirla per dire che ci sono anche delle idee nella nostra realtà da cui immaginare un possibile futuro. Il primo obiettivo lo pongo a me stesso, ed è quello di non essere dogmatico, di non cadere mai nel sentimentalismo. Per tornare a Rabin, credo che quanto ha portato alla sua morte è iniziato molto prima, lui era diverso, mi è capitato di essergli accanto nei viaggi, durante i negoziati al Cairo, a Washington e ho visto il suo modo di lavorare meticoloso ma con semplicità. Quando parlava non cercava di manipolare il suo interlocutore, oggi invece i politici sono gestiti dagli spin doctor, siamo manipolati, non si discute di nulla. Ho voluto affrontare questa vicenda a viso aperto come avrebbe fatto lui; per questo sono andato a parlare con uno dei magistrati della Corte suprema che era nella commissione di inchiesta sulla sua morte. Mi ha accolto a casa sua e quando mi ha chiesto cosa pensavo del lavoro svolto gli ho risposto che avevano investigato superficialmente senza concentrarsi su chi cercava di destabilizzare il governo di Rabin con la violenza. Così ho avuto accesso agli archivi nazionali su cui ho costruito i dialoghi del film.

La scelta di riutilizzare le tue opere del passato riguarda anch’essa questo lavoro sulla memoria?
Gli archivi divengono secondo il caso elementi di una proposta nuova, che si affida allo sguardo dello spettatore e lì assume un valore politico e artistico. Si rompe anche l’esclusività di una forma o di un’altra, estendere Lullaby for my Father in altre forme supera l’ermetismo proprio del cinema, permette di sperimentare, è anche una sfida. La lingua ebraica infatti ha una grammatica del presente dettata dalle condizioni dell’azione in cui il tempo non è centrale – l’yiddish non aveva invece una vera e propria grammatica, era quasi una lingua segreta. Quando sono entrato a Palazzo Vecchio mi sono confrontato con la centralità dell’arte, Nettuno, la bellezza dei corpi, in un presente che riporta le esperienze nel passato. La cultura ebraica è invece astratta, rifiuta l’arte figurativa, la sposta altrove. Ma la bellezza non è solo perfezione, è piuttosto qualcosa di particolare, un dettaglio che attrae, come nell’arte dei tappeti quelli che ci piacciono di più sono spesso imperfetti, in alcuni punti cambiano colore.