Tutto quello che siamo dipende anche dagli amori che abbiamo vissuto, da quelli sfiorati, dai baci dati e dagli incontri del destino, dal caso, questo verrebbe da dire dopo aver letto Innamorato (Bollati Boringhieri, pp. 193, euro 16) di Marco Drago, felicemente caotico e incompiuto come la trama eccentrica della vita. «L’ombra lunga di un amore» comincia nei primi anni ’80, dopo le guerre politiche, in tempi di riflusso, nelle aule di un liceo di una provincia del Basso Piemonte, quando il protagonista incontra la sua Diane Keaton, «la donna più bella del mondo», che nel libro non viene mai nominata, e strugge di desiderio per lei. Leggendo il libro, al quale l’autore presta la sua biografia, quella che chiama «la profondità dell’impronta» risveglia anche i nostri primi amori sepolti nella memoria affollata, quelli più viscerali e lontani, i più gioiosi, dolorosi e intensi, perché tocca un lato tenero del romanzo di formazione di ognuno, qualcosa che la letteratura ci permette di riconoscere fuori e dentro di noi.

«LA STORIA di una innocua ma potentissima ossessione», così come la definisce l’io narrante e protagonista è come tutte le ossessioni, compresa quella del farsi della scrittura, qualcosa che vive esclusivamente nello spazio mentale, nelle trame occulte dei pensieri inconfessabili ma terribilmente vivi, uno spazio di libertà assoluta e di dolce follia come quello delle passioni amorose. Sulle intenzionalità letterarie, Drago ci avverte sin dalle prime pagine, «ho una mancanza enorme: difetto di fantasia, non possiedo né il gusto né il dono dell’affabulazione, se mi si dà un argomento, un contesto, un canovaccio, posso facilmente trasformarlo in una narrazione», più o meno come affermò l’amato Peter Handke («mi piace raccontare, ma non chiedetemi di inventare una storia»). Per liberarsi una volta per sempre del suo tormento amoroso, l’autore-narratore scrive senza strategie, sceglie «un flusso incoerente di ricordi in discorso indiretto». E allora narrare in maniera frenetica e spericolata, persino ondivaga, diventa la missione di questo libro che, come dice alla perfezione Diego Da Silva nella quarta, «non va da nessuna parte ma lo fa benissimo», e un po’ ricorda il Boccalone di Palandri per la nevrotica e vitalistica verbosità; tanto che questa «avventura della memoria», la quale inventa, inganna, ma è fatta altresì di un passato vivo che non passa, riempie e trasforma i vuoti in immaginazione e diventa inevitabilmente «una strana forma di fiction».
Il corpo a corpo con i riti dell’innamoramento adolescenziale è fatto di attese, delusioni, rivali, baci interminabili, stagioni, la scoperta del sesso in quel tempo diventato «il più grande dei misteri», l’alcol e i «primi prudenti tiri di canna», quello stato di felicità, d’euforia parossistica difficile da ripetere che Drago chiama «estasi permanente» quando dopo quattro anni riesce a coronare il suo sogno.

MA NEL LIBRO l’autore traccia anche e soprattutto il ritratto di una generazione indecifrabile e orfana, il suo sound (i Cure, la colonna sonora, ma anche U2 e i Police e molti altri), con tutti gli avvenimenti memorabili e mitologie televisive, cinematografiche, letterarie, la finale dei mondiali del 1982 e la tragedia di Chernobyl, il subbuteo e la Perestrojka, ma anche Meno di zero di Ellis, i viaggi ad Amsterdam, le fughe a Londra sulla linea d’ombra che lo separa dall’Università. Poi tutto finisce, passano gli anni, ma gli basta ascoltare il refrain di una canzone, passare in una via, basta un gesto per ripensare a un amore che non ha mai dimenticato, «quella persona è morta anche se è viva, o meglio vive nei ricordi e basta» scrive del suo fantasma della fantasia. Così come sono un lontano ricordo di quella provincia italiana i «tornitori vestiti da ricchi» degli anni ’80 che bevevano champagne, ai quali di quel periodo resta solo «una brutta automobile invecchiata male». Erano gli anni della Milano da bere, di Reagan e della signora Thatcher, gli anni in cui è stato «praticamente sempre innamorato di lei», ma aveva vent’anni, «l’ultima stagione di onnipotenza illusoria che ci viene concessa e va vissuta. Va vissuta tutta. Senza paure» scrive con tenerezza dei suoi tormentati e bellissimi anni giovani.