Sembra lontanissima la caduta del muro di Berlino con tutte le sue implicazioni. Se Tomasz Wasilewski, classe 1980, ha sentito il bisogno di riflettere sul periodo immediatamente successivo e sul panorama etico del suo paese, non sarà certo per compiere un’operazione nostalgica con Le donne e il desiderio, Orso d’argento per la sceneggiatura alla Berlinale. Piuttosto le conseguenze del cambiamento si riflettono in maniera ancora decisa nella società contemporanea.

Siamo trasportati  indietro nel tempo dalla scelta visiva, a qualcosa che somiglia alla pellicola Orwo utilizzata in quei film che rendevano alla perfezione prima ancora delle parole, il senso di denuncia, la corruzione, gli interrogatori. Eravamo nel 1990 appena usciti dall’epoca del cinema Solidarnosc, un cinema energico, sottile e coinvolgente. Perfino Kieslowski si spostava in occidente a scoprire le lusinghe del bianco, rosso e blu. Il regista all’epoca del muro aveva nove anni: arrivano certi prodotti occidentali, si può aprire perfino un cupo videonoleggio che assomiglia a un ufficio del catasto dove affittare film per adulti. Ma a spegnere l’euforia, lo skyline è sempre disegnato dai dai casermoni lugubri e anonimi. Ad abitare il film vi sono quattro protagoniste che, come potrebbe succedere in un film di Kieslowski (non è certo casuale la citazione) si sfiorano anche se si conoscono a malapena.

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Destini più che infelici, senza scampo, varianti di amori impossibili, chi preda dell’ossessione per il giovane parroco, chi con un amante di lunga data ma assai poco affidabile, chi è attratta dalla vicina di casa, una patetica ex reginetta di bellezza. È il trionfo di un eccezionale gruppo di interpreti: Julia Kijowska, Magdalena Cielecka, Marta Nieradkiewicz, Dorota Kolak. Quando Kieslowski (è lo stesso regista a creare collegamenti) raccontava la sua breve storia sull’amore pur con gli stessi ordine di fattori (il block, l’impossibile incontro) il film ti avvolgeva con calda emozione. Wasilewski in realtà non sta parlando degli anni ’90 e dello spaesamento del paese,si sta rivolgendo al pubblico contemporaneo perché si guardi allo specchio.

Questo panorama, accompagnato con altrettanto horror vacui dal direttore della fotografia, il romeno Oleg Mutu, che ha lavorato con Cristiam Mungiu, Sergei Loznitsa e Cristi Puiu, ci appare senza speranza perché la liberazione è più simile alla disperazione, l’energia impiegata in tante lotte si riducono a una gelida celebrazione (la scuola cambierà nome, sarà dedicata a Solidarnosc), e infine quel sentimento laico che illuminava i film di Kieslowski appare oggi spento, come se fosse scomparso ogni apologo morale, ogni elemento spirituale. Senza dimenticare che è sempre presente anche l’immancabile di umorismo nero, dato dai numerosi collegamenti con una realtà in cui si può riconoscere facilmente non solo il pubblico polacco ma anche lo spettatore che abbia consuetudine con i classici di quella cinematografia.