Il giorno del suo cinquantesimo compleanno, Tommaso – colto musicista fiorentino, giramondo e donnaiolo – riceve, in plico sigillato da uno studio notarile, le confessioni (o meglio: digressioni) autobiografiche di Massimo, scrittore raffinato, amico di famiglia, omosessuale nient’affatto refoulé («io crebbi … serenamente frocio, e assiduamente praticante»), solo di recente passato a miglior vita. Comincia a leggerle; e leggendole, vi intreccia i propri ricordi e le proprie digressioni (per Tommaso non è ancora tempo di una confessione): la sua voce, in tondo, alternata alla voce in corsivo di Massimo. Se, già a questo punto, si considera che la vita di uno scrittore (italiano del secondo Novecento!) non è interessante quasi per definizione, e che la prosa di Massimo, per ammissione dello stesso Tommaso, è «superba sempre, in ambo le possibili accezioni dell’aggettivo», mentre Massimo, con tutto il bene che gli vuole, riconosce che Tommy «non (è) per nulla simpatico» – ecco, sembrerebbero esserci tutte le premesse, strutturali, stilistiche e ‘umane’, per tenersi alla larga dal nuovo romanzo di Hans Tuzzi: Nessuno rivede Itaca (Bollati Boringhieri, pp. 281, euro 15,00).
Non fatelo, però, sarebbe imperdonabile. Questo è un romanzo splendido, una di quelle opere, a lungo immaginate, tenute dentro, e poi nel cassetto, per anni: il libro in cui tutti i motivi di un autore tornano come trasfigurati, dispiegandosi su un piano di più alta necessità. Dei libri di Tuzzi (il suo vero nome, ormai si sa, è Adriano Bon) ho già scritto più volte; e non sempre senza una punta di irritazione per certi funambolismi di troppo, e per quella vena di goliardia, talvolta affiorante, che non è un difetto in sé, ma non incontra il mio gusto. Moti di sacrosanta esasperazione per «le muffe accademiche che stanno all’arte come la prostatite sta all’eros», o per quegli (i nostri) «eredi di imperi economici e ceti dirigenti che vestono come minorenni e parlano come minorati», s’incontrano anche in Vanagloria (2012), il primo romanzo-romanzo di Tuzzi. E lo squallido passato prossimo (mai veramente passato) di servizi segreti, terrorismo, intolleranze e ambigue collusioni Stato-Chiesa rievocato nella narrazione di Massimo, è – con radici che qui affondano più tenaci negli anni del fascismo e della guerra – lo stesso le cui maglie le indagini del commissario Melis tentano, spesso invano, di districare.
Ma alla rappresentazione dolente delle offese della storia, e a quella, sconfortata, dell’isteria volgare e ignorante dell’attualità, Nessuno rivede Itaca aggiunge una dimensione che, senza sconfinare nel metafisico, sembra spingere oltre il visibile, e fin il nominabile. E questo senza alcuna vaghezza, senza ricorso all’ineffabile; anzi, proprio nelle pagine in cui il furor tassonomico del sapientissimo Tuzzi è più stringente – o, se si preferisce, più struggente è il suo empito d’amore per «l’inesausta e sempre cangiante ricchezza della lingua» italiana: perché le parole esatte, «i nomi, lungi dall’essere tutt’uno con la cosa, ne svelano le nature multiple e segrete».
Improbabile e inevitabile come il destino, un segreto – il segreto del ‘vero’ rapporto (o parentela?) che lega Massimo a Tommaso – è anche all’origine dell’intrigo del romanzo. Che mi guardo bene dal rivelare: anche se, paradossalmente (e questo dice molto sulla densità della scrittura di Tuzzi), lo scioglimento mi ha colpito, e convinto, di più alla seconda che alla prima lettura. Non che Nessuno rivede Itaca non sia un libro che si legge d’un fiato anche ‘per la storia’. Che si delinea e prende forma zigzagando per tutto il Novecento, tra Milano e Venezia, e attraverso quasi ogni Stato d’Europa e ogni altro continente, trascinando con sé miriadi di altre storie: aneddoti e ricordi di famiglia, discettazioni varie su bordelli e vespasiani, incontri d’amore, addii, i riti pettegoli della vie littéraire e il rito africano, livido e solenne, di una resurrezione («Come Apollonio. Come Gesù. Facile, certo, nei casi di morte apparente. Ma come si può sapere con certezza che di morte apparente si tratta?»), allucinazioni o epifanie. E – siccome «qualsiasi orrore è verosimile se attribuito all’animale uomo» – alcuni episodi di indicibile ferocia: come quello del prigioniero spagnolo pesato a pezzi, o dell’ebreo mangiato vivo, o della caccia ai mufloni in Afghanistan («…e a un certo punto da dietro una roccia era comparso un turbante. Bè, lo centrò perfettamente alla spalla, quel giovane…»).
Per carità, non entro nei dettagli. I primi due episodi sono raccontati da Massimo, il terzo da Tommaso. Il quale, probabilmente, ha dovuto sostenere, con l’intelligenza, la pietà e lo sdegno del suo sguardo, l’inferno di tutti e tre per giungere alla felicità – l’oasi inabitata – della sua meditazione sulla forma delle uova degli uccelli, «le più liete creature del mondo» (un prestito, non tra virgolette, dall’Elogio degli uccelli di Leopardi): più o meno ellittiche – e qui la spiegazione si fa scientifica, appoggiandosi a una ricerca dell’università di Princeton «condotta prendendo le misure di quasi cinquantamila uova di millequattrocento specie diverse» – meglio vola l’uccello che le depone. «Ellitticità e asimmetria delle due estremità, la più grossa e la più appuntita – quelle per le quali, direbbe Massimo, Lilliput e Blefuscu consumarono annosa guerra –, sono strettamente correlate alla forma dell’ala, cioè all’attitudine al volo: più l’ala è allungata e assottigliata, più il corpo è aerodinamico e l’animale è buon volatore. (…) La conferma viene dalla pronunciata sfericità delle uova di uccelli non volatori, ma soprattutto dall’unica clamorosa eccezione alla regola, e cioè la forma ellittica delle uova del pinguino, che notoriamente non sa volare. Esso è però abilissimo nuotatore, e nel mare si procura il cibo cacciando: pertanto, il suo corpo scivola nell’acqua come quello di un falco nell’aria, e spiega perché le sue uova siano allungate. Tutto questo, ora che lo sapete, cambia qualcosa nella vostra vita? No? Vi compiango».