Qui di seguito degli estratti di un’intervista rilasciata da Varda al «manifesto» nel 2001.

ARTIGIANATO E DESIDERIO Il cinema come artigianato è una condizione indispensabile quando lavori fuori dal sistema. È lì che impari a utilizzare i mezzi del cinema che partendo dal niente diviene tale, cioè che diviene cinema partendo dal desiderio di cinema. Che è diverso dal fatto di costruire immagini per spingere la gente ad avere reazioni o per riempire le sale. Questo davvero non mi interessa.

IL MONTAGGIO Il lavoro dell’artista è mettere in discussione ciò che ha in mano. Ogni montaggio è una lettura possibile di quanto si è girato, io monto tutto il tempo, mi piace moltissimo e mi permette di capire meglio cosa sto facendo.

ESSERE NEL FILM Quando si è soggetto e oggetto di un film non si sa mai dove arriverà. È bizzarro e divertente perché si ha una coscienza della realtà e una risposta a questa. Mi sono sempre chiesta come comprendere le cose all’interno di un senso logico. E ho pensato spesso a un ricordo di guerra. Eravamo a lezione di francese e a un certo punto suona l’allarme. Ci troviamo nel rifugio e il professore continua la sua lezione su Mallarmé. Ecco, credo che ci sarà sempre un Mallarmé e un certo cinema a rispondere alle bombe e alla violenza.

IL DIGITALE La telecamera in digitale è un mezzo che ti regala una grande libertà. Girare con la macchina da presa è molto più difficile, almeno in certe situazioni, e anche il video ti impone più costrizioni. Quando ho girato il film su Jacques Demy (Jacquot de Nantes, ndr) sarebbe stato molto più semplice in digitale. Cambia il rapporto con quanto si filma, persone, luoghi, puoi avvicinarli in maniera differente. E c’è una libertà nuova nella relazione con i tecnici. Nel digitale c’è una forte componente di reportage nelle aperture non solo tecniche ma anche dello spirito.

AMORE E FAMIGLIA Le bonheur (1964) è stato uno scandalo perché c’erano già i temi del sessantotto, l’amore era visto come una forma estesa, e la famiglia non era la soluzione più ovvia cosa che penso anche oggi.

PATATE Nel 1954 ero ancora una fotografa e ho fatto una mostra. Un ragazzo che mi voleva bene sei mesi prima mi aveva regalato una patata a forma di cuore. L’avevo messa nel mio studio e sei mesi dopo aveva messo i germogli. L’ho fotografata ed era in quella mostra. Quarantasei anni dopo, mentre giro Les glaneurs et la glaneuse ecco che trovo un’altra patata a forma di cuore… Non è che uno si ripete, ma ci sono comunque cose che restano. E la patata è il simbolo primario della povertà, che fiorisce, che ritrovo… Sono le immagini della mia vita e una faccenda complicata, il rapporto tra bellezza, realtà, amore del bello e degli esseri umani non si può mai definire in un solo modo.