La richiesta del Papa «di una grande amnistia» per il Giubileo Straordinario della Misericordia, può anche essere respinta al mittente. Purché lo si motivi con ragioni all’altezza dell’interlocutore, il quale possiede carisma, progettualità, credibilità in quantità che la politica ha smarrito da tempo.

Ovvio l’entusiasmo dei favorevoli, a cominciare dalla voce ragionevolmente visionaria di Pannella. Quanto agli altri, il silenzio generale è stato interrotto da poche risposte verosimili, ma non vere. Eccone il catalogo.

La risposta orgogliosa è, in apparenza, convincente. Rivendica il primato della politica sull’indulgenza cristiana. La misericordia è una virtù morale, che dispone alla compassione e opera per il bene del prossimo perdonandone le offese. Non può però dettare tempi e contenuti delle scelte giuridiche che, laicamente, rispondono all’etica della responsabilità, preoccupandosi delle conseguenze concrete più che dei buoni propositi. Tutto giusto ma sbagliato se riferito al tema della clemenza, dove la voce di Bergoglio si è aggiunta (e non sostituita) a quella del capo dello Stato e della Corte costituzionale che, da tempo, hanno invocato una legge di amnistia e indulto. Il primo, motivandone le ragioni strutturali nel suo unico messaggio alle Camere, ignorato al Senato, discusso solo di sponda alla Camera. La seconda, evocandolo in un’importante sentenza del 2013 in tema di sovraffollamento carcerario. Rispondere picche al Papa, come già al Presidente Napolitano e ai Giudici costituzionali (tra i quali, allora, sedeva anche Sergio Mattarella), testimonia della politica non l’autonomia, ma la grave afasia.

La risposta pavloviana è quella di chi ama vincere facile. C’è la sua variante rozza («Mai più delinquenti in libertà») e quella più forbita («Le carceri devono essere luoghi di rieducazione, ma chi è condannato deve stare in carcere fino all’ultimo giorno»). È un mantra costituzionalmente stonato. Se le pene «devono tendere» alla risocializzazione, durata e afflittività dipendono, in ultima analisi, dal grado di ravvedimento del reo: questo, alle corte, è quanto imposto dalla Costituzione. La certezza della pena è, dunque, un concetto flessibile, più processuale che sostanziale. Scambiarla con la legge del taglione significa abrogare l’intero ordinamento penitenziario, benché vigente da quarant’anni.

C’è poi la risposta causidica. Interpretare le parole del Papa come un appello alla politica ne fraintenderebbe il senso, esclusivamente ecclesiale. Che tale precisazione venga dal portavoce vaticano non stupisce: già nel 2002 la richiesta di clemenza di Papa Wojtyla – coperta da applausi in Parlamento – fu poi ignorata da deputati e senatori. Prudenzialmente, oltre Tevere, si vorrebbe evitare il de-javù.
Se Bergoglio ha usato – per la prima volta – la parola “amnistia”, l’ha fatto a ragion veduta, soppesandone l’inevitabile impatto politico. Non ha improvvisato. Ha proseguito la sua riflessione (sul senso delle pene, sulla necessità di un diritto penale minimo, sui pericoli del populismo penale) e la sua azione riformatrice (abolizione dell’ergastolo, introduzione del reato di tortura), entrambe costituzionalmente orientate. Isolare da ciò il suo appello alla clemenza è come divorziare dalla realtà delle cose.

Dal governo, invece, è giunta la risposta stupefatta: «Ma come? Proprio ora che il tasso di sovraffollamento è calato, grazie a misure deflattive adeguate? Proprio ora che si è aperto un grande cantiere per la riforma della giustizia e dell’ordinamento penitenziario?». Lo stupore nasce da un fraintendimento di fondo: quello per cui un atto di clemenza generale sarebbe alternativo a riforme strutturali, quando invece ne rappresenta un tassello essenziale. Amnistia e indulto sono previsti in Costituzione come utili strumenti di politica giudiziaria e criminale, a rimedio di una legalità violata da un eccesso di processi e detenuti. È solo la sua rappresentazione collettiva (decostruita efficacemente da Manconi e Torrente nel loro libro La pena e i diritti, Ed. Carocci, 2015) ad aver trasformato una legge di clemenza da opportunità a catastrofe per i propri dividendi elettorali.

Resta la risposta possibilista. Fare in modo che «una legittima aspirazione della Chiesa possa diventare un fatto politico» (così il Presidente Grasso); tradurre questa richiesta «in qualche cosa di strutturale, che rimanga anche dopo» (così il ministro Orlando). Come? Le maggioranze dolomitiche necessarie e le divisioni tra le forze politiche, temo, bloccheranno i disegni di legge ora fermi in Commissione al Senato. Perché, allora, non riformare l’art. 79 della Costituzione che, nel suo testo attuale, oppone così rilevanti ostacoli alla loro approvazione? L’ultima amnistia risale al 1990, l’ultimo indulto al 2006. Restituire agibilità politica e parlamentare agli strumenti di clemenza: questa sarebbe una risposta possibile, e all’altezza della misericordia giubilare.