Una giornata densa di polemiche accompagnerà questa mattina all’hotel San Giorgio di Gerusalemme Est la presentazione di «Israel’s Apartheid against Palestinians: Cruel System of Domination and Crime against Humanity». È il rapporto in 182 pagine con cui Amnesty International si unisce all’accusa di praticare l’Apartheid contro i palestinesi già rivolta a Israele da Human Rights Watch lo scorso aprile («A Threshold Crossed. Israeli Authorities and the Crimes of Apartheid and Persecution») e poco più di un anno fa da B’Tselem, la più nota e stimata (all’estero) Ong israeliana per i diritti umani («This is apartheid: The Israeli regime promotes and perpetuates Jewish supremacy between the Mediterranean Sea and the Jordan River»). Nel lungo e dettagliato rapporto, la Ong per i diritti umani con sede nel Regno unito, afferma che le autorità israeliane devono essere chiamate a rendere conto del crimine di Apartheid contro i palestinesi e del sistema di oppressione e dominazione nei confronti della popolazione palestinese, in Israele e nei Territori occupati. L’inchiesta documenta uccisioni, requisizioni di terre e proprietà, trasferimenti forzati, limitazioni dei movimenti e il diniego della nazionalità e cittadinanza a danno dei palestinesi. Violazioni, che secondo Amnesty, rappresentano un sistema di Apartheid e, quindi, un crimine contro l’umanità così come è definito dallo Statuto di Roma e dalla Convenzione sull’Apartheid.

Le autorità israeliane, scrive Amnesty nella versione breve del rapporto, «mettono in atto molteplici misure per negare ai palestinesi i diritti e le libertà basilari, incluso con drastiche limitazioni di movimento nei Territori palestinesi occupati, un sotto investimento cronico nelle comunità palestinesi residenti in Israele e la negazione del diritto al ritorno dei rifugiati». L’uccisione di manifestanti palestinesi, sostiene Amnesty, è forse la più chiara illustrazione di come le autorità israeliane ricorrano ad atti vietati per mantenere lo status quo. «Nel 2018 i palestinesi di Gaza hanno iniziato a tenere proteste settimanali lungo il confine con Israele, rivendicando il diritto di fare ritorno per i rifugiati e chiedendo la fine del blocco. Prima ancora che le proteste iniziassero funzionari israeliani di alto grado hanno avvertito che se i palestinesi si fossero avvicinati al confine sarebbe stato aperto il fuoco. A fine 2019, le forze israeliane avevano ucciso 214 civili, inclusi 46 minorenni». Alla luce di queste uccisioni di palestinesi, Amnesty International chiede al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di imporre un embargo totale sulle armi verso Israele.

L’Ong britannica per i diritti umani affronta poi il punto dei palestinesi trattati come una minaccia demografica. «Dalla sua costituzione nel 1948 – scrive – Israele ha condotto una politica per istituire e mantenere una maggioranza demografica ebrea, e di massimizzazione del controllo sulle terre e sulle risorse a vantaggio degli ebrei israeliani. Nel 1967 Israele ha esteso tali politiche alla Cisgiordania e alla Striscia di Gaza. Oggi tutti i territori controllati da Israele continuano ad essere amministrati con l’intento di beneficiare agli ebrei israeliani a scapito dei palestinesi, mentre i rifugiati palestinesi continuano ad essere esclusi». Amnesty non contesta il desiderio di Israele di essere una patria per gli ebrei ma, spiega, «i governi israeliani successivi hanno considerato i palestinesi come una minaccia demografica, imponendo misure di controllo e volte a decrescere la loro presenza e per accedere alle terre in Israele e nei Territori palestinesi occupati. Questi obiettivi demografici sono ben illustrati dai progetti ufficiali per giudaicizzare aree di Israele e della Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, che continuano a minacciare migliaia di palestinesi con il rischio di trasferimenti forzati».

I cittadini palestinesi in Israele godono di maggiori diritti e libertà rispetto a chi risiede nei Territori occupati, mentre l’esperienza dei palestinesi di Gaza è molto diversa rispetto a quella di coloro che vivono in Cisgiordania. «Nondimeno le nostre ricerche – precisa Amnesty – hanno concluso che tutti i palestinesi sono sottoposti allo stesso sistema sovrastante. Il trattamento dei palestinesi da parte di Israele in tutte le aree persegue lo stesso obiettivo: privilegiare gli ebrei israeliani nella distribuzione delle terre e delle risorse e minimizzare la presenza dei palestinesi e il loro accesso alle terre». Amnesty afferma di poter dimostrare che le autorità israeliane trattano i palestinesi come un gruppo razziale inferiore, definito dal loro status non-ebreo e arabo. «Ai palestinesi residenti in Israele viene negata la nazionalità, creando una differenziazione giuridica rispetto agli ebrei israeliani. In Cisgiordania e a Gaza, dove Israele controlla i registri anagrafici dal 1967, i palestinesi non hanno alcuna cittadinanza e molti sono considerati apolidi e devono quindi chiedere documenti di identità all’esercito israeliano per vivere e lavorare nei territori…I rifugiati palestinesi e i loro discendenti, sfollati nelle guerre del 1947-1949 e del 1967, continuano a vedersi negato il diritto al ritorno nel loro precedente luogo di residenza. L’esclusione dei rifugiati da parte di Israele è una evidente violazione del diritto internazionale che lascia milioni di persone in un limbo perpetuo di sfollamento forzato».

Amnesty ricorda che nel 2018 la discriminazione nei confronti dei palestinesi è diventata una legge costituzionale che, per la prima volta, descrive Israele come stato-nazione del popolo ebreo. La legge promuove inoltre la costruzione degli insediamenti ebraici e degrada l’arabo da lingua ufficiale a lingua con uno status speciale. Il rapporto documenta come i palestinesi non possano fare contratti di locazione sull’80% dei terreni di stato israeliani a seguito di requisizioni di terreni e di una rete di leggi discriminatorie sull’assegnazione delle terre, di piani edilizi e di regolamenti urbanistici locali. E ricorda la condizione di trentacinque villaggi beduini, casa per circa 68.000 persone, che non sono riconosciuti dallo Stato e questo significa che non sono collegati alla fornitura elettrica e idrica nazionale e ripetutamente prese di mira per la demolizione. «Decenni di deliberato trattamento ineguale dei palestinesi residenti in Israele ha determinato un profondo svantaggio economico rispetto agli ebrei israeliani. Questa condizione è acuita dall’assegnazione evidentemente discriminatoria delle risorse di stato: un esempio recente è il pacchetto di aiuti post Covid-19 di cui solo l’1.7% è stato attribuito alle autorità locali palestinesi».

Il rapporto affronta anche lo spossessamento e lo sfollamento dei palestinesi dalle loro case che definisce come «un pilastro determinante del sistema israeliano di apartheid». E denuncia che i quartieri palestinesi di Gerusalemme Est sono presi di mira da organizzazioni di coloni israeliani che, con il pieno appoggio del governo, agiscono per sfollare famiglie palestinesi e annettere le loro case, come sta avvenendo a Sheikh Jarrah. Infine, Amnesty ricorda la costruzione di barriere, come il Muro di separazione lungo 700km che Israele sta ancora ampliando, ha isolato le comunità palestinesi all’interno di zone militari e gli abitanti devono ottenere diversi permessi speciali ogni qualvolta lascino o rientrino nelle proprie case. E che a Gaza oltre due milioni di palestinesi vivono sotto un blocco israeliano che ha creato una crisi umanitaria. «È quasi impossibile per gli abitanti di Gaza viaggiare all’estero o in altre parte dei Territori palestinesi occupati e sono quindi segregati dal resto del mondo».

Amnesty International fornisce raccomandazioni affinché Israele possa smantellare il sistema di apartheid. Come primo passo chiede la fine della pratica della demolizione di case e degli sgomberi forzati. Inoltre, Israele deve permettere uguali diritti a tutti i palestinesi in Israele e nei Territori palestinesi occupati, in linea con i principi del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario. Deve riconoscere il diritto dei rifugiati palestinesi e dei loro discendenti di fare ritorno nelle case dove vivevano loro o i loro familiari vivevano. Deve fornire piena riparazione alle vittime di violazioni dei diritti umani e di crimini contro l’umanità. L’Ong britannica chiede alla Corte penale internazionale di indagare poiché, scrive, «Che vivano a Gaza, Gerusalemme Est, a Hebron o in Israele, i palestinesi sono trattati come un gruppo razziale inferiore e sono sistematicamente privati dei loro diritti».

Il ministero degli esteri israeliano ha diffuso ieri sera una dura risposta. “Nel pubblicare questo falso rapporto, Amnesty usa doppi standard e la demonizzazione per delegittimare Israele. Queste sono le componenti esatte da cui è fatto l’antisemitismo moderno”, si legge in un comunicato diffuso ieri sera. Amnesty respinge le accuse di antisemitismo che considera un tentativo di distogliere l’attenzione dalla violazione dei diritti umani dei palestinesi.

Contro Amnesty e il suo rapporto comunque era cominciato già tre giorni fa un intenso fuoco di sbarramento. Protagonista Ngo Monitor, un’associazione legata alla destra israeliana e nota per la sistematica denuncia di voler delegittimare Israele e di lavorare per il terrorismo che ha rivolto a numerose Ong straniere, non solo quelle per i diritti umani, che operano nei Territori palestinesi occupati o che seguono il conflitto israelo-palestinese. Ngo Monitor ha anticipato sui social diverse pagine del rapporto di Amnesty suscitando le reazioni irate di numerosi cittadini israeliani e di sostenitori di Israele all’estero. Le critiche all’organizzazione dei diritti umani non entrano nel merito e non riguardano il contenuto del rapporto. Piuttosto Amnesty è accusata di non rivolgere le sue indagini ad altri Stati o, ad esempio, di non operare a difesa dei cristiani oppressi e perseguitati in vari paesi. Una reazione non nuova che vuole Israele preso di mira ingiustamente mentre gravi violazioni dei diritti umani avvengono in molti altri luoghi del pianeta, nel quadro di una campagna messa in atto da Ong e associazioni che appoggiano i palestinesi. Ad esempio, secondo il professor Gerald Steinberg dell’Università Bar Ilan (Tel Aviv) e direttore di Ngo Monitor, la campagna contro Israele e l’accusa di Apartheid hanno avuto inizio a Durban nel 2001 con la «Conferenza mondiale contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e l’intolleranza» delle Nazioni Unite, organizzata a suo dire per isolare e condannare Israele. Per Steinberg, il direttore di Human Rights Watch, Ken Roth, ha una «ossessione» per Israele e, afferma, con le sue accuse di Apartheid avrebbe ottenuto visibilità e finanziamenti generosi per la sua Ong. Ora, scrive Steinberg in un articolo, «Questa campagna è stata ripresa da Amnesty International e da altre potenti Ong con pregiudizi anti-israeliani, allo scopo di sfruttare in modo immorale le sofferenze delle vere vittime dell’Apartheid e del razzismo e trasformare una disputa politica in un conflitto razziale». Per il direttore di Ngo Monitor le denunce palestinesi e delle Ong per i diritti umani contro l’occupazione militare che dura da oltre 50 anni e la violazione di diritti sanciti dalle leggi internazionali, sarebbero solo una «disputa politica». Ieri si sono uniti alla condanna del rapporto di Amnesty anche l’Anti-Defamation League, Aipac e altre organizzazioni che sostengono Israele e riconducibili alla comunità ebraica americana.