Dopo tre decenni impiegati a raccontare l’imperialismo come fucina delle diverse modernità sparse nel globo, era prevedibile che Amitav Ghosh entrasse anche nel dibattito sull’Antropocene. Esce in questi giorni La grande cecità Il cambiamento climatico e l’impensabile, a cura di Anna Nadotti e Norman Gobetti, gli accuratissimi traduttori cui lo scrittore indiano-americano deve la sua popolarità in Italia (Neri Pozza, pp. 284, € 17,00).

A partire dal termine «derangement» del titolo originale (The Great Derangement), ispirato all’idea di «sconquasso scalare» suggerita da Timothy Clark in un celebre intervento del 2005, l’impalcatura retorica del saggio è costruita su una polifonia delle fonti più autorevoli del pensiero ambientalista contemporaneo. Ghosh interroga la climatologia per riflettere sul ruolo che la letteratura e l’arte potranno svolgere nel futuro di una umanità che ha pericolosamente alterato la struttura della terra, e nel conseguimento di una maggiore giustizia climatica attraverso una decrescita tanto infelice per alcuni quanto necessaria per tutti.
Il pubblico cui è familiare la narrativa di Ghosh non faticherà a ritrovare in questa penetrante meditazione sul mondo post-naturale generato dal surriscaldamento globale i temi e i metodi cari allo scrittore. Soprattutto nei romanzi pubblicati nel nuovo millennio, Ghosh ha sistematicamente fatto leva su un’immaginazione specialistica che mette la conoscenza storica, antropologica e scientifica al servizio della narrazione. Tanto più, dunque, la scelta del genere saggio induce a domandarsi che cosa, questa volta, non potesse essere raccontato nell’intreccio di voci e storie che caratterizza il suo stile enciclopedico.

Ebbene, a muovere l’analisi della Grande cecità è proprio questo interrogativo. Come mai gli scrittori di fiction, da sempre abituati a costruire un senso dei luoghi verosimile e affettivamente rilevante, appaiono indifferenti alle trasformazioni del pianeta e alle catastrofi ambientali? Che cosa, nell’Antropocene, è irriducibile alla forma romanzo così come è stata praticata fino a oggi, in particolare nel ventesimo secolo in Occidente? Secondo Ghosh, praticamente tutto. Il cambiamento climatico mina le fondamenta delle società moderne perché demistifica la convinzione che la libertà e la storia dipendano dalla capacità umana di trascendere la natura, e che tale trascendimento non possa che attuarsi nell’irreversibilità di un tempo vettoriale. Così, «il riconoscimento che non siamo stati mai indipendenti da vincoli non-umani» si abbatte sulle persone con una violenza epistemica che desertifica l’immaginazione e ostacola lo sviluppo di politiche basate sull’azione collettiva, anziché sul moralismo ambientalista che non cambia nulla perché riconduce i problemi a stili di vita privati.

Se fino a oggi il romanzo ha celebrato l’«avventura morale» di individui smaterializzati, facendone coincidere la libertà con una profonda dissociazione tra il corpo e la mente, il global warming esige da un lato la loro piena ri-materializzazione, e dall’altro un ridimensionamento assai più radicale di quello auspicato da tutti i movimenti politici e religiosi anticapitalistici succedutisi nella modernità. Dopo tre secoli di realismo borghese, il cambiamento climatico appare impensabile poiché resuscita l’imponderabile e il perturbante in un senso squisitamente fisico e contingente. È questa la ragione per cui, ora più che mai, Ghosh ritiene che ci sia bisogno degli scrittori. Ben oltre ciò che siamo in grado di immaginare, l’Antropocene invoca con urgenza una nuova prosa del mondo.