Oggi, per ritrovare Cuno Amiet, sfoglio l’unica monografia dedicata al pittore pubblicata in Italia, edita nel 1948 dalla milanese Martello con un testo dello storico dell’arte zurighese Gotthard Jedlicka. Mentre in Svizzera le sue opere, ordinate anche in un catalogo ragionato, continuano a essere esposte in mostre e musei, al di qua delle Alpi il suo nome, se è presente, affiora solamente tra le righe delle storie di Segantini e dei Giacometti, come fosse un attore secondario. È nell’estate del 1896, nelle vallate svizzere di lingua italiana, sotto il Piz Duan, che le vicende di questi artisti si sono intessute saldamente nelle trame sfilacciate del divisionismo. Per seguire le tracce di Amiet da lì, dal cuore dell’Engadina, si può allungare la strada fino a Coira dove, al Kunstmuseum, c’è un Autoritratto del 1895 solare, pieno di ottimismo, già di proprietà dell’amico Giovanni Giacometti – un suo ideale pendant è proprio l’Autoritratto di quest’ultimo, frontale, quasi allucinato, tra le ombre nette della Val Bregaglia, oggi al museo di Ginevra. Da Coira le scelte sono due: si può attraversare la Baviera fino a Monaco o la Svizzera fino a Berna e da lì spostarsi a Soletta e a Oschwand, tra le colline dove il pittore visse dai trent’anni in poi. Si riscopre, in questi paesaggi ora irradiati dalla luce estiva, il «tremore dei colori» che Cuno ha ricercato con pervicacia nelle rappresentazioni delle contrade fertili sui contrafforti dell’Emmental, in ogni stagione, con tempo sereno, piovoso, o quando il paesaggio è annullato dalla neve che sciama come un vapore nell’atmosfera.
Quanto Guglielmo Tell
In un’Ottocento saturo di temi patriottici, nei saloni di Belle Arti svizzeri tappezzati da infinite versioni del Tiro alla mela di Guglielmo Tell, Ferdinand Hodler, classe 1853, spopolava con il suo modo di dipingere «rude e virile». Nella ricerca di un’identità pittorica nazionale, le linee quasi incise delle sue figure si associavano alla brutalità del «vecchio temperamento svizzero»; Hodler diventò presto il pittore di riferimento del giovane Stato elvetico.
Più tardi, tutto si sfilacciò nelle nebbie dense dei nazionalismi montanti: il bernese Hodler, con codazzo di epigoni, spopolava a Berlino, Monaco, Vienna, dove le sue figure nodose, severe, si affermavano come il frutto di una freschezza pre-istorica, di un’eleganza barbarica e di una «purissima essenza tedesca». Non fu facile per gli altri artisti svizzeri smarcarsi dal successo del capofila diventato eroe nazionale. L’azione penetrante del suo influsso arrivava fino a Paul Klee, che ne riprendeva le figure nelle prime acqueforti, e si scioglieva nella luce e nell’innocenza spensierata dei colori di Cuno Amiet considerato, ingiustamente, solo un emulatore del maestro di Berna.
Amiet nacque a Soletta, nell’omonimo cantone, nel 1868. Nella seconda parte della sua lunghissima vita – morì, infatti, nel 1961 a novantatre anni – fu venerato come uno degli artisti svizzeri più importanti di sempre. Su Hodler, Amiet scrisse: «non ricercava, a mio avviso, il valore del tono; egli non ne studiava le interazioni. No; lui aveva il dono di mettere in evidenza un solo tono al suo valore massimo». E ancora, a sottolineare le differenze con la propria produzione: «Da parte mia, ho potuto osservare in natura fasce d’ombra e luce, colori scuri e colori vivaci, contorni più o meno accentuati. In Hodler, niente di tutto questo. Tutti i colori erano chiari e le forme nettamente separate le une dalle altre, circoscritte da contorni marcati».
Il primo incontro con Hodler data 1893; Amiet era fresco reduce dell’esperienza artistica e umana che cambiò le sorti della sua vita e il suo modo di concepire la pittura. Tredici mesi passati a Pont-Aven, in una stanza adibita a studio con due ampie finestre e un balcone rivolto al «vecchio castello tra splendidi castagni». Mancò di un paio di mesi Gauguin, già in viaggio verso Tahiti, ma frequentò i suoi adepti impegnati a rendere visibile la potenza espressiva della natura: gli scambi con Armand Seguin da cui imparò l’acquaforte, Maurice Denis che gli insegnò la modulazione dei volumi attraverso l’arabesco lineare, Émile Bernard e il cloisonnisme, il mondo trasfigurato di Sérusier e le intuizioni condivise con l’amico Roderic O’Connor dilatarono i pori dell’esperienza di Amiet.
Perciò da quel 1893 Cuno cominciò ad affrontare il campione dell’arte nazionale Hodler assorbendo, imparando, facendo sua la «disciplina formale» che vi riconosceva, forte di un’esperienza formativa senza eguali tra le Alpi. Assalì allo stesso modo Segantini, Van Gogh e Cézanne, più tardi Matisse e i fauves, copiando, rielaborando, appropriandosi degli approcci tecnici ma nicchiando sulle ragioni profonde, come a cercare lo stile perfetto per estrarre l’anima luminosa di ogni pigmento. Gli interessava carpire dalle opere degli altri artisti «come fosse possibile rappresentare la meraviglia, il miracolo di un fiore, di un albero, di una nuvola, di una persona». Arriverà a dipingere, come dirà l’amico Hermann Hesse, con la stessa naturalezza degli uccelli mentre cantano.
Sul finire dell’Ottocento le sue forme semplificate seguono un ritmo discendente e ascensionale che sembra una mescolanza musicale di Jugendstil e post-impressionismo, in una rilettura del simbolismo più fosco. Come se le ossessioni ambigue di Böcklin e von Stuck e la pittura «rude e virile» dei padri della patria fossero state sciacquate nell’acqua della Senna e fissate su tela con la luce del Maloja. Quanta parte avranno avuto, in questo traghettare (apparentemente) placido e sereno, il focolare caldo di Stampa, l’amicizia con Giovanni Giacometti e Segantini, il diradarsi degli scambi con Hodler, il trasferimento nella campagna bellissima, illuminata da una luce sempre limpida come dopo un acquazzone, di Oschwand?
Beniamino dei giovani della Brücke
Svoltato il secolo la linea che ritagliava la trama di fondo scompare e il colore steso per macchie quasi monocrome spinge l’immagine alle soglie dell’astrazione. Tra 1904 e 1905 pochissimi pittori, in Europa, possono dire d’essersi spinti così in là. Amiet continuava a variare la tecnica con la quale elaborava le proprie composizioni perché, disse, «Come sono variegati gli aspetti del mondo, così è variegata la mia pittura». E alla domanda: come possono essere tutti questi dipinti dello stesso pittore? Rispondeva con le ragioni del sangue. Le sue origini famigliari e le lingue parlate lo hanno tenuto sospeso in diversi luoghi d’Europa, così come l’amore per la pittura l’ha spinto verso stili differenti, tutti utili a cercare e poter dire qualcosa di sé.
La forza espressiva dei suoi accostamenti bidimensionali, l’intensa musicalità, a volte sguaiata, di forme e cromie, fecero di Amiet uno dei beniamini dei giovani espressionisti della Brücke. Fu Erich Heckel, uno dei fondatori del gruppo, forse il più sensibile alla relazione poetica tra colore e sentimento, a invitarlo nel movimento. Amiet, più vecchio di tutti loro, accettò, spendendosi in ogni modo per la riuscita dei propositi della Brücke.
Nel 1918 morì Hodler. Fu alternativamente «amico, ispiratore, aiutante, rivale, ostacolo»; per sigillarne il ricordo, come aveva fatto col padre e come Giacometti aveva fatto con Segantini vent’anni prima, Amiet ne ritrasse il corpo senza vita. Con la morte di Hodler il mondo di Cuno con i suoi paesaggi liquefatti da una luce trascolorante, luoghi di creazione di forme soggette a eterna modifica, deflagrò in una produzione sempre più cospicua. Arrivò il successo poi, nel 1931, una selezione di cinquantuno opere scelte tra la sua produzione migliore, dai capolavori bretoni in qua, si persero nell’incendio del Glaspalace di Monaco. Amiet ricominciò da capo ridipingendo molti dei quadri bruciati, spesso a memoria: visse così la propria carriera due volte. Tra alti e bassi arrivò, anziano, a una pittura dai contorni sfilacciati nella luce in cui si sente la fatica dell’età: oggi la memoria li associa ai disegni estremi di Michelangelo.