Uno tra i motivi per cui il corso universitario inglese di creative writing dell’Università dell’East Anglia, fondato dagli scrittori Malcolm Bradbury e Angus Wilson nel 1970, è ritenuto il più prestigioso del Regno Unito, sta nell’avere contato tra i suoi alunni Ian McEwan e Kazuo Ishiguro. Entrambi allievi di Bradbury, hanno tuttavia sviluppato le loro carriere su sentieri e attraverso modi alquanto diversi: se McEwan ha mostrato prestissimo di possedere una voce affatto originale, sapientemente modulata per affrontare temi scabrosi e inquietanti, i primi romanzi di Ishiguro hanno piuttosto la capacità di mantenere un equilibrio perfetto tra il tono elegiaco e uno sguardo amaramente ironico. McEwan si è imposto da subito come un autore unico nel suo genere, dissacratore e spiazzante, mentre i primi due lavori pubblicati da Ishiguro una volta terminato il Master a Norwich costituiscono una sorta di apprendistato per approdare alla singolarità del romanzo che gli ha dato fama in tutto il mondo, Quel che resta del giorno.

Avviandosi a ricalcare le orme paterne, la figlia di Ishiguro, Naomi, concluso lo stesso corso di scrittura creativa frequentato quattro decenni or sono dal padre, pubblica ora un romanzo, Terreno comune (traduzione di Margherita Emo, Einaudi, pp. 374, € 22,00), difficilmente considerabile come poco più che un diligente esercizio di scolastica perfezione verso il raggiungimento della propria identità autoriale. Di gradevole lettura, il libro troverebbe la sua perfetta collocazione in una collana per giovani adulti: racconta la storia dell’amicizia tra un preadolescente timido e bullizzato e un ragazzo rom di qualche anno più grande, risolvendosi in un apologo di valenza pedagogica sull’amicizia e l’inclusione. Scritto in un linguaggio semplice e privo di sperimentalismi, sembra rimandare al lessico e alla fraseologia della narrativa classica per ragazzi (sarebbe interessante, per esempio, scoprire quale espressione del testo originale la traduttrice rende con il piuttosto obsoleto «fare spallucce», un atteggiamento cui i protagonisti del romanzo ricorrono con frequenza fastidiosa). Tutti gli stilemi e gli argomenti della young adults literature sono presenti: da un lato, l’intento formativo si manifesta in una condanna del razzismo, del bullismo, dell’ipocrisia in generale nonché dell’alcolismo e della violenza; dall’altro, il rispetto di una garbata correttezza politica fa sì che in tutta la lunga narrazione non appaiano mai espressioni troppo forti o volgari e le scene più audaci o più violente siano soltanto lasciate intuire.

L’andamento vagamente ingenuo da storia di formazione rivolta a un pubblico adolescente ben si addice alla prima parte del romanzo, che vede la nascita dell’amicizia tra i due protagonisti, osteggiata da entrambe le famiglie d’origine; mentre la seconda parte, che narra del loro nuovo incontro, una decina di anni più tardi, in circostanze radicalmente mutate – quello che era un sedicenne spavaldo è diventato un perdente alcolizzato, mentre il ragazzino insicuro si sta facendo strada nel mondo dell’accademia e del giornalismo – avrebbe richiesto un deciso cambio di tono. Tuttavia, è evidente che l’intento di Naomi Ishiguro non è offrire un ritratto dal vivo, e per forza di cose sgradevole e brutale, della società inglese razzista e classista, bensì comporre un inno all’amicizia – e dunque arrivare a un lieto fine in cui si rinsaldi il rapporto d’affetto tra i due giovani, spezzato nell’adolescenza a causa di pregiudizi sociali e recuperato, nell’età adulta, tra mille difficoltà dovute alle differenze di classe, censo, cultura e, non ultimo, ancora una volta, ai pregiudizi contro il popolo nomade (di cui l’autrice mostra di conoscere in maniera non superficiale usi, costumi ed espressioni idiomatiche).