Il sedicesimo secolo è un’epoca, nella storia della musica occidentale, di formidabili innovazioni. Mai erano sorti, nell’arco di cent’anni, così tanti generi musicali «inauditi». Nei primi decenni del Cinquecento nasce, ad esempio, apparentemente all’improvviso, il «nuovo madrigale», un modo di cantare la poesia che ne amplifica come mai era accaduto prima gli affetti più estremi. Sul declinare del secolo appare invece sulla scena la sconvolgente «opera per musica», l’idea assai bizzarra, cioè, di cantare una storia dal principio alla fine. Le due rivoluzioni possiedono, caso raro nella storia delle arti, due date di nascita sufficientemente precise. Nel 1530 viene pubblicato a Roma il cosiddetto «Libro Primo della Serena», una silloge di composizioni polifoniche profane attribuite tra gli altri a Verdelot, Janequin, Costanzo e Sebastiano Festa, in cui compare per la prima volta in una fonte a stampa il termine «madrigale».

Da questo momento, nonostante l’importanza della raccolta sia stata ridimensionata dagli studi di James Haar e Iain Fenlon, il madrigale acquista un preciso status di genere e diventa la forma più elevata di dialogo tra gli affetti poetici e quelli musicali. Sessantacinque anni più tardi, nella Firenze tardo cinquecentesca intrisa di cultura neoplatonica, un librettista assai prolifico, Ottavio Rinuccini, e un compositore dai mille talenti, Jacopo Peri detto Zazzerino, mettono in pratica una idea diversa: quella cioè di affidare la mozione degli affetti, non già alla trama di quattro o cinque voci in polifonia, bensì a una e una sola voce, accompagnata dal basso continuo. E nasce così nell’inverno tra il 1594 e il 1595, nella ingannevole pretesa di riproporre i fasti dell’antica tragedia greca, una Dafne oggi perduta, che viene messa in scena a Palazzo Corsi nel 1598.

In questo stesso volgere di anni, lontano dalla vivacità dei centri di Roma e Firenze, nel più silente settentrione d’Italia, prende corpo e vita un altro genere musicale straordinariamente innovativo: il cosiddetto «madrigale rappresentativo» o drammatico. Un genere ibrido, ambiguo e quindi aperto per sua stessa natura alla pratica della sperimentazione. Sin dal nome scelto dai posteri, il nuovo genere si pone esattamente all’incrocio tra tendenze e tensioni opposte: il madrigale e l’opera, la polifonia e la monodia, la poesia e la prosa, il palazzo e il palcoscenico. Il frutto forse più originale e tipico del nuovo genere – nato in ambiente borghese e dal tratto assai meno elitario del suo parente «puro» – è il celebre Amfiparnaso di Orazio Vecchi, composto nel 1594 e denominato, nella prima edizione a stampa, «commedia harmonica». Un titolo oggi offuscato dall’oblio, ma che ha trovato, nel Novecento, una fortuna inattesa: prima a Padova, nel 1927, grazie a uno storico allestimento diretto da Alfredo Casella, e poi al Teatro Eliseo di Roma nel 1950, accostato all’Orfeo Vedovo di Alberto Savinio, durante una indimenticabile stagione voluta da Goffredo Petrassi per infondere «vita nova» al teatro musicale da camera. Del resto, l’Amfiparnaso di Vecchi – parodia irriverente e disincantata del Parnaso arcadico – presenta tutti i tratti di un nuovo «paradigma» teatrale.

Nella sostanza, è il tentativo, del tutto inedito, di porre in musica i tratti e i caratteri della commedia dell’arte italiana. E seguendo questa strada, testo e partitura introducono una serie vertiginosa di ibridazioni. Anzitutto, tra forme musicali diverse: il madrigale, la canzone, la villanella, la mascherata, la Giustiniana. E poi tra lingue poetiche differenti: il veneziano di Pantalone e dei suoi servi, il bolognese del dottor Graziano, lo spagnolo caricaturale del capitano Cardone. E infine tra personaggi comici e personaggi seri, come la coppia di innamorati Lello e Nisa. Un sincretismo stilistico esasperato, dunque, che ha attraversato sotterraneamente cinque secoli di teatro e che ancora oggi fa sentire la sua eco lontana.