Il governo degli Stati Uniti rimane ufficialmente chiuso con 800.000 impiegati statali sospesi senza paga e decine di ministeri, enti ed agenzie federali fuori servizio. Ne c’è alcun segno di prossima soluzione alla crisi. Anzi, mentre prosegue il muro contro muro sulla riforma sanitaria che i repubbicani chiedono di abrogare, sulla crisi si allunga sempre di più l’ombra del «tetto fiscale» e la crisi ben più esplosiva che potrebbe verificarsi fra un paio di settimane se i repubblicani negassero, come hanno assicurato di fare, i voti necessari ad autorizzare il rialzo del «debt ceiling».

Si tratta di un film già visto, una sequel della disfuzione politica che ruota attorno alla guerra conservatrice ai deficit; la riduzione di spesa e debito pubblico come strumento politico per restringere l’odiato governo centrale in nome di un estremo liberismo. Il fatto è che da qualche anno la politica di Washington è ostaggio di questo integralismo conservatore e, da quando la camera è in mano della fazione estrema del tea party, la politica economica in particolare è sull’orlo di una crisi di nervi permanente.

È vero che in America non c’è un emendamento costituzionale sulla spesa simile al fiscal compact ma sotto pressione della destra negli anni sono state altresì varate una serie di leggi vincolanti sul bilancio dall’effetto sostanzialmente equivalente. I tagli automatici alla spesa e aumenti obbligatori delle tasse che contengono hanno già precedentemente portato il paese sull’orlo del «baratro fiscale». Nel 2011 una manovra repubblicana che fu prova generale di quella attuale, minacciò di non autorizzare il rialzo del «tetto del debito» facendo tremare i mercati, impennare i tassi e provocando la declassazione degli Usa da parte delle agenzie di rating a livello di AA per la prima volta nella sua storia. All’inizio dello stesso 2013 il congresso evitò solo a notte fonda del primo gennaio che scattassero riduzioni della spesa che minacciavano di far implodere la ripresa economica. Allora Obama e i repubblicani finirono per rimandare il problema affidando negoziati sul bilancio ad una speciale commissione. Da allora la liquidità della massima economia del mondo è assicurata mediante decreti di emergenza – ed eccoci di nuovo all crisi attuale che a giorni riproporrà in modo improrogabile il rialzo del tetto fiscale, ovvero l’autorizzazione al ministero del tesoro a saldare le proprie obbligazioni.

Si tratta dei titoli già immessi sul mercato per finanziare il debito americano che hanno anche un importanza fondamentale per l’economia mondiale perche’ parte integrante dei portafogli di governi e banche di tutto il mondo.

Gli stessi repubblicani ammettono che la vera partita politica si gioca ormai sul tavolo del debito. E per partita qui si intende un nuovo ricatto per ottenere i propri obbiettivi. Lo scenario piu’ plausibile sarebbe che il presidente ottenesse una ritirata repubblicana su sanita’ e debito a fronte di una promessa di un successivo negoziato sui tagli alla spesa pubblica (pensioni, tasse, possibilmente l;autorizzazione all’oleodotto Keystone chiesto dai petroieri). Sarebbe il «grand bargain», cioè le larghe intese auspicate dai centristi, ma di cui non c’è al momento ombra. Alla leadeship repubblicana mancano i margini per un compromesso di questo tipo. Il presidente della camera Boehner infatti deve rendere conto alla fazione oltranzista il cui interesse politico e’ sostanzialmente limitato a soddisfare l’elettorato integralista dei propri distretti conservatori. Un vicolo cieco in cui la politica economica mondiale è paradossalmente tenuta ostaggio da sacche estremiste della provincia americana.

La situazione è resa piu esplosiva dalla mancanza nell’ordinamento americano di un meccanismo istituzionale per una crisi «all’europea», che andrebbe incontro ad un voto di sfiducia ed eventualmente al rimpasto di governo. Dato che Obama non puo’ cedere al ricatto senza abdicare ogni residua autorità, l’unica soluzione sarebbe il compromesso da parte dell’ala moderata repubblicana. Invece , per quanto possa sembrare assurdo, le fortune di FMI, banca mondiale e le economie di vari stati sovrani poterbbero fra una decina giorni essere in balia di una manciata di bastian contrari della campagna dell’Alabama o le pianure del Texas, infervorati da anni di demagogia populista. Una deriva talebana che si ritorcerebbe puntualmente e catastroficamente sull’economia occidentale e sul prestigio politico degli Stati Uniti.
Un default sulle obligazioni, ha avvertito ieri il segeretario del tesoro Jacob Lew, non avrebbe precedenti e precipiterebbe il paese in una nuova recessione, una crisi peggiore di quella del 2008 dato che la mora del Tesoro degli Usa farebbe sicuramente impallidire la bancarotta di Lehman Bros. Un karakiri il cui beneficio verrà prontamente incassato dai rivali globali degli Stati Uniti, come la Cina, che intanto prende atto del ritiro strategico di Obama dal suo viaggio in Asia, proprio nei giorni in cui il presidente Xi Jinping Hu è in tournée economica nel proprio «cortile» sudest asiatico.