Negli scorsi mesi, sono stati tradotti due interventi con cui la filosofa statunitense Nancy Fraser ha dimostrato, una volta di più, di saper sondare lucidamente l’attualità, facendo emergere i punti di attacco più sensibili per possibili lotte di resistenza. Due parti di una medesima proposta critica, interessante da considerare oggi, per tornare a riflettere sul successo e la sconfitta di Trump, per aprire scenari futuri, e in generale per inquadrare le ragioni circolanti nella politica statunitense (e globale), terreno di coltura per azione politica o istigazione all’eversione.

Il primo testo, del 2017, è ora pubblicato in Italia con il titolo «Il vecchio muore e il nuovo non può nascere» (ombre corte, pp. 75, euro 7). Appena dopo l’elezione di Donald Trump, Fraser definiva la sua diagnosi sul sorprendente successo di un outsider e sul fallimento della proposta democratica. Un’analisi che partiva dagli Stati Uniti, ma la cui estensione era globale, rilevando i segnali della crisi di «egemonia» che negli ultimi decenni ha colpito la credibilità delle classi politiche che, da sinistra e da destra, si sono ostinati a incarnare i dettami di un neoliberismo ingiusto e degradante.

Trump si è imposto in un panorama politico occupato da una figura ibrida, al limite dell’ossimoro: il «neoliberismo progressista», che, da Clinton a Blair e oltre, ha riconfigurato in termini neoliberali, di fatto tradendole, le battaglie per l’emancipazione e il riconoscimento – femminismo, diritti lgbtq+, antirazzismo, ambientalismo. La nuova sinistra ha così ridato fascino alla retorica del successo e a quel senso di giustizia offerto dai concetti di merito e responsabilità individuale, e ha attribuito una nuova patina di legittimità alle «politiche che favorivano una vasta redistribuzione della ricchezza e del reddito verso l’alto». Così facendo, ha a lungo conteso il campo al neoliberismo reazionario, che associava politiche economiche neoliberiste a una visione apertamente ostile alla diversità etnica, religiosa, di genere; ma, dall’altro lato, ha depotenziato i resti delle politiche redistributive basate sullo stato sociale.

Una volta che deregolazione del mercato e impoverimento dei sostegni pubblici hanno presentato un conto salato alle classi media e bassa, al confronto fra un neoliberismo reazionario e uno progressista si è allora affiancata la contesa fra due proposte populiste. Di ingiustizia sociale, povertà, solitudine e degrado hanno cercato di incaricarsi gli outsider Sanders, da parte progressista, e Trump, da parte reazionaria: affrontandosi nello spazio aperto dai danni provocati dal neoliberismo, essi si distinguevano nettamente quanto alle politiche di riconoscimento, che per Sanders dovevano declinarsi in termini inclusivi, mentre per Trump assumevano toni nazionalistici.

Il destino di queste due critiche al neoliberismo è noto, ma non è irrilevante ricordarlo oggi: il Partito Democratico è riuscito a riassorbire l’anomalia «Sanders», prima con Hillary Clinton e poi con Joe Biden; quanto a Trump, non ci è voluto molto perché l’esibita vicinanza alle rivendicazioni del 99% lasciasse strada a un drammatico connubio di economia neoliberista e politiche intolleranti, mediante l’estensione della competizione dal mercato alla sfera dei diritti umani, sociali e civili.

È come se, nonostante gli evidenti effetti del neoliberismo, la sua logica continuasse a configurare profondamente le nostre relazioni, traducendosi in competizione per i diritti, prevaricazione, sospetto e odio, mentre all’elettorato scontento non resta che provare ora una ora l’altra delle offerte che si alternano, mai al riparo dalla tentazione di cercare soluzioni in una guerra fra poveri di matrice nazionalistica e gerarchizzante. Non sappiamo come si declinerà l’operato dell’amministrazione Biden, ma, affinché tali derive tossiche non siano nuovamente fonte di attrazione, la sinistra dovrà deporre ogni forma di paternalismo e comprendere le ragioni materiali, economiche e sociali a cui Trump ha dato voce. Ciò che per Fraser è necessario è una rinnovata nozione di socialismo, capace di combinare una redistribuzione egualitaria e un riconoscimento inclusivo, di unire diritti sociali e diritti civili in un meccanismo di potenziamento reciproco.

La postura da assumere per intraprendere questo percorso è descritta nella conferenza «Cosa vuol dire socialismo nel XXI secolo?» (Castelvecchi, pp. 49, euro 7,50). Si tratta di dismettere la pretesa – moralistica e facile preda della retorica neoliberale – di cambiare la testa delle persone, assumendo invece una prospettiva politica più concreta, in grado di mostrare come inclusione, accoglienza, riconoscimento, solidarietà non siano minacce per la sicurezza, ma fonti di un benessere più esteso e duraturo. Dall’altra parte, con uno scarto rispetto al marxismo ortodosso, va superata una visione angusta della realtà, ristretta ai soli lati economici e miope di fronte ai presupposti non-economici delle contraddizioni intrinseche al capitalismo. Fraser ci colloca nella zona di interazione fra le dinamiche di ingiustizia e sfruttamento da un lato, e, dall’altro, le condizioni non direttamente economiche di tale sfruttamento, «la riproduzione sociale, il potere dello Stato, la natura non-umana e le forme di ricchezza che si trovano fuori dei circuiti ufficiali del capitale, ma comunque alla sua portata».

È in questo spazio che si preparano le condizioni di sfruttamento: qui si incontra una precisa conformazione della vita familiare e dei ruoli di genere, perché sia svolto un lavoro di cura non riconosciuto ma sulla cui presenza il capitalismo conta per poter sopravvivere; qui si trovano un preciso assetto legale e i beni pubblici, costantemente sofferti come limiti al mercato, eppure anch’essi condizioni esterne di esistenza dello stesso mercato; qui si trovano l’esproprio delle ricchezze di soggetti razzializzati e l’abuso di soggetti marginalizzati; e infine lo sfruttamento della natura.

Sfondando la retorica reazionaria del trumpismo, si scopre come autoritarismo, razzismo, sessismo, sfruttamento ambientale siano le condizioni non economiche mediante cui il capitalismo prepara il terreno per lo sfruttamento del lavoratore, e non certo vie di emancipazione da tale sfruttamento. Questi sono i presupposti non economici, necessari ma misconosciuti, dello sfruttamento capitalista da far emergere; e questi, e non l’immigrato, l’omosessuale o il transessuale, la donna, l’ambiente, sono gli obiettivi verso cui rivolgere il malcontento, mostrando, anzi, come fomentare odio e abuso sia la strategia del capitale per poter continuare a riprodurre il proprio sfruttamento.

Già Marx aveva mostrato come la riduzione a merce delle capacità della forza-lavoro avvenga nella sfera privata, nella vita familiare, nel tempo libero, nella produzione di bisogni e desideri. Il soggetto diviene sfruttabile solo una volta che la sua forma è stata adeguatamente disciplinata in vista di un benessere possibile; solo se la sua obbedienza non è strappata ma introiettata come buona volontà; solo se si è impartita la corretta lezione della diseguaglianza, su chi è degno di riconoscimento e chi invece destabilizza il benessere e la sicurezza altrui: processi di costruzione dell’individuo che operano in uno spazio di riconoscimento non direttamente economico e che definiscono i margini esterni della collettività per meglio catturare i membri interni.

Su questi presupposti, afferma Fraser, la lotta socialista per il superamento del capitalismo neoliberista compenetra la lotta socialista contro la politica sociale nazionalista, razzista, sessista. Solo accettando di superare la divisione tra politica ed economia, e considerando l’economia anche nei suoi margini non direttamente economici, si potrà forgiare una nuova nozione di socialismo, sciogliendo ogni persistente velleità neoliberale e togliendo ogni ragione d’esistenza alla sua forma reazionaria. Accettando queste sfide, il socialismo può presentarsi come una «potenzialità per la libertà umana, benessere e felicità che lo stesso capitalismo ha reso accessibili ma che non è in grado di realizzare», e come «una risposta alle ingiustizie e alle impasse del capitalismo: ai problemi che il sistema crea non per caso, ma che non può risolvere, e alle sue forme di dominazione strutturale intrinseche, che non può superare al proprio interno».