Long Island, una sera d’aprile 1992. Un giovane afroamericano, William Ford, va a recuperare la macchina dal meccanico. Il proprietario esce dal garage e gli va in contro, dopo qualche scambio di battute, dall’officina esce un giovane bianco, il quale insulta l’afroamericano, si gira e rientra nel negozio. Ford lo segue. I due spariscono all’interno e all’improvviso si sente un colpo di pistola: Ford è a terra, colpito al petto, morirà qualche ora dopo in ospedale. La polizia indaga, non tanto sul colpevole, il quale afferma di aver agito per legittima difesa, ma sulla vittima. Due mesi dopo il fatto, un Grand jury riunito per decidere se c’è ragione di credere se si è in presenza di un crimine, delibera che non c’è ragione di portare il caso davanti ad un tribunale.

Vent’anni dopo, il fratello minore di William Ford, Yance Ford, cerca di riparare l’ingiustizia subita. Emergendo in primissimo piano da un fondo scuro, si rivolge direttamente allo spettatore: « Non sono sorpreso del fatto che l’omicidio di mio fratello non sia andato a processo, ma vorrei almeno cercare di chiarirne le ragioni. » L’oggetto del documentario Strong Island – coproduzione danese statunitense diretta da Yance Ford presentato nella sezione Panorama – non è il caso in sé questo, come si è detto, è chiaro, si tratta di un omicidio.

Il film si chiede invece come sia possibile, in un paese ufficialmente retto dallo stato di diritto, che una persona possa essere uccisa e che il suo assassino non venga processato. La risposta è: può accadere se la vittima è afroamerican e se l’omicida è un bianco. Il corollario della decisione del Gran jury è che un uomo nero, anche se non armato, costituisce sempre nei confronti di un uomo bianco una minaccia tale da giustificare in quest’ultimo il ricorso alla violenza preventiva. Ma tutto questo va provato. L’America del 1992 non è cambiata da quella segregazionista del 1962? La risposta è nella storia della famiglia Ford. Il film ci porta in un primo tempo in Carolina del sud, dove il nonno di William muore per una crisi d’asma nella sala d’aspetto riservata agli afromericani di un ospedale. La madre di William riesce a diplomarsi e con il marito decide di trasferirsi a Brooklyn, dove lei insegna e lui trova lavoro come ferroviere.

Quando comincia  la speculazione edilizia di Long Island, i Ford lasciano la Brooklyn cosmopolita per un quartiere per soli neri, immerso in un’area urbana per soli bianchi. Le circostanze della morte di William sono in fondo accidentali, è il contesto in cui questo omicidio viene perpetrato prima e dimenticato poi che fanno emergere una realtà inoppugnabile: la segregazione continua, contro ogni attesa. Strong Island è quello che si dice un elefante in una cristalleria.

Strong Island è quello che si dice in America «an elephant in the room»: qualcosa che è evidente, ma di cui nessuno vuole parlare. La stanza è l’America contemporanea, nella quale Trump appare, a torto, come un errore di percorso, l’elefante è la segregazione. Chi coltiva l’idea che, i diritti civili siano, salvo qualche incidente, un dato acquisito, dovrebbe andare urgentemente a vedere questo film.