I 210 miliardi di euro del Recovery Fund devono attuare la riconversione del modello produttivo in senso ecologico. Non è questione più derogabile, per avere «un pianeta più sano per la nostra salute», consapevoli che solo con la giustizia ecologica avremo giustizia sociale.

La pandemia ci ha indicato la strada, e a senso unico obbligato.

Eppure, nella prima audizione del neoministro della Transizione Ecologica Cingolani alle commissioni parlamentari dei giorni scorsi ci è sembrato riecheggiasse ancora l’atavica questione della difficoltà di fare audaci passi verso la transizione ecologica per questioni socioeconomiche legate al sistema di produzione, a un sistema produttivo e di mercato vecchi e legato a vecchie logiche.

Eppure noi non siamo chiamati a investire questi fondi, che corrispondono oggi a qualcosa in più del famoso Piano Marshall del dopoguerra, per continuare nella stessa logica o per fare piccoli passi avanti, per continuare a foraggiare le stesse produzioni inquinanti e climalteranti delle grandi lobby economiche e di potere, ma per stravolgere completamente il modello di produzione.

Il ministro Cingolani ha espresso la propria visione, e non si è smentito per quanto riguarda la propria «Mission».

Un ambientalismo liberista, produttivistico, aziendalistico e di mercato cui subordina anche la transizione ecologica. Frena su superamento dei Sad (i sussidi ambientalmente dannosi), frena su idrogeno da fonti rinnovabili (che spinge in fondo al quadro in un orizzonte temporale ai prossimi dieci anni insieme a una futuribile fusione nucleare, ancora Eni) e apre di nuovo al gas, enormemente clima alterante. Non risponde su progetti Eni di cattura e stoccaggio della CO2, peraltro bocciati dalla Corte dei conti europea.

Ma gli ultraliberisti al governo plaudono a questa linea che subordina la pur declamata transizione ecologica alla produzione attuale sul vecchio modello di crescita infinita in un mondo finito.

* l’autrice è senatrice di Sinistra italiana