Essenziale, rigoroso, capace di far vibrare le superfici e di far specchiare il mondo dentro reticoli costruiti in lamine di alluminio e materiali industriali. Getulio Alviani, grande protagonista dell’arte cinetica, è morto al’età di 78 anni. Era nato a Udine nel 1939 e, fin da bambino, aveva inquadrato la realtà a modo suo: anche il mare era diventato ben presto una tavola geometrica percorsa da linee dinamiche.

Progettista, grafico, teorico, collezionista e promotore culturale – tutti ruoli che amava – fu tra i primi ad aderire al gruppo Nove Tendencije, che in Italia annoverò anche il Gruppo N.

“Per me – diceva – essere chiamato artista è un’offesa. Si potrebbe parlare semmai di artefice di qualcosa formalmente inedito. Credo sia più corretto: ideatore plastico, progettista, studioso di problemi percettivi”. Dopo aver mosso i primi passi nella sua città, presso il laboratorio dello scultore Max Piccini, lavorò in uno studio di architettura e ingegneria, poi collaborò con un’industria di apparecchiature elettriche. Riuscì ad aggiudicarsi un premio per il design di strumenti elettrici e così prese a progettare valvole e interruttori con pulsanti fluorescenti. Attento studioso delle teorie Bauhaus, cominciò alla fine degli anni Cinquanta le sue ricerche sulla dinamica della percezione

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Non soltanto artista della “ragione”, era interessato alle ambiguità gestaltiche e anche ai fattori sensoriali (le superfici, la luce, i riflessi, la “cinetica” della visione, l’angolazione inedita. Alviani pensò sempre all’opera come a una struttura interattiva, una programmazione aperta, riproducibile, otticamente pronta alla mutazione, al cambio di pelle. Giocò la sua arte su moduli contrapposti, – dal negativo al positivo dal concavo al convesso – e fu uno sperimentatore in più campi della creazione. Nel 1963 progettò per Marucelli tessuti ottico-cinetici che aprono alla moda op art. Approfondì in seguito anche l’interazione dei materiali con gli elementi naturali e poi nei suoi cromogrammi indagò la fenomenologia del colore. A chi gli chiedeva come avrebbe potuto definire la sua produzione e quella di chi, come lui, si era dedicato all’arte cinetica, rispondeva con una serie di negazioni. “Non culto della personalità, si preferiva l’anonimato; non gallerie private, ma solo istituzioni culturali pubbliche; non arte elitaria; non feticismo; non opera unica, ma inizio del multiplo per uno scopo sociale”. Nelle mostre, fu un protagonista della prima ora di quella avanguardia, da lla rassegna del 1962 Arte programmata nel negozio Olivetti di Milano alla storica The Responsive Eye al MoMa di New York nel 1965. Nei decenni successivi, i moduli standard utilizzati per costruire le sue opere in movimento sono trasmigrati su forme archittoniche.