Se l’autobiografo indossa, come sostiene il critico letterario Andrea Battistini, una maschera che impedisce all’Io di mettersi completamente a nudo, il biografo è un vampiro che, succhiando il sangue dall’altro, lo assimila al proprio organismo alterandone, con la sopraggiunta simbiosi emotiva e intellettuale, la fisionomia originaria.

Carlos Manuel Álvarez, nato nella cubana Matanzas ma oggi residente a Città del Messico, una distanza che gli permette di contemplare ancora da vicino l’Isola, ha studiato giornalismo a Cuba, scegliendo di dedicarsi soprattutto alla crónica, genere assai fecondo in America Latina, e ha fondato il giornale on-line El Estornudo, pubblicando articoli sul New York Times, Letras Libres, El Malpensante. Leitmotiv della sua scrittura sembra essere la decadenza della epopea rivoluzionaria cubana. In Cadere (traduzione di Violetta Colonnelli, pp. 150, € 15,00) il suo esordio, combina magistralmente quattro autobiografie di ‘figlio’, ‘madre’, ‘padre’ e ‘figlia’, che prendono la parola a turno, sempre nello stesso ordine. I loro monologhi sono situati dallo scrittore cubano in una struttura narrativa apparentemente asettica, come da cartella clinica, ma è una telefonata nel cuore della notte, tra realtà e incubo, a rivelare: «sono nella tua testa».

Polli cannibali

Nonostante sia il primo titolo di Álvarez, la polifonia è solida, forte di una cura «cartesiana» come dichiarato dallo stesso autore, che aggiunge: «Il mio romanzo è verticale, va verso il basso, come una caduta». Le quattro voci sono ordinate da un narratore esterno (senza identità, ma c’è), che le dispone per un ritratto della Cuba attuale: dove ancora si raziona la benzina, dove i maestri disertano in massa per lavorare nel turismo, dove la povertà è un buco oltre che nei piatti, «nel cuore e nello stomaco».

Cadere mostra il dramma di un nucleo familiare che si disgrega, specchio e metafora di una società portatrice di malattie senza cura, fuori asse e scomposta, laddove la dissennatezza «sopraggiunge in seguito alle cadute». I giorni trascorrono «come cani rabbiosi», nel ricordo delle ripercussioni della caduta del blocco sovietico durante il periodo especial, e nella coscienza che i tempi duri siano piuttosto quelli della «crisi dei valori, semplicità spirituale, scarsa tenacia», in cui «nessuno ha voglia di fare niente». I tempi attuali.

Biografi vampiri
Ritrattata come obsoleta dalla giovane e applaudita voce di Álvarez, Cuba gioca ancora un ruolo incisivo nella vita della famiglia protagonista del romanzo. È il tedio a produrre una degenerazione da macello: «Nella gabbia di acciaio, il vizio della noia è ereditario». Una severa e riuscita allegoria con qualcosa che ci riguarda, fa sì che nel romanzo siano esposte le condizioni che convertono un animale potenzialmente nobile e inoffensivo come il pollo al cannibalismo: l’eccesso di calore, la sovrappopolazione, la cattiva alimentazione. Soprattutto, la noia. D’altronde, il cannibalismo dei polli non è poi così lontano dal vampirismo del biografo: Cuba, nella scrittura di Álvarez, diventa il bolo alimentare di una pratica autoriale, senza esclusione di cadute di stile (impossibile non fare riferimento all’articolo su El País in cui Álvarez spara a zero contro Roberto Retamar, presidente di Casa de las Américas, il giorno dopo la sua morte).

Al di qua della critica esplicita e del baluardo controrivoluzionario, la crisi familiare a cui si riferisce il romanzo ha radici profonde, cui è difficile sottrarsi anche in società lontane dal socialismo. Al centro del malessere mondiale, in Cadere, c’è una massa informe di esseri che «si recano malvolentieri, a testa bassa, come bestiame al macello» al lavoro o a scuola, «istituzioni che odiano e che continuano a riverire». Nella certezza che non esista paradiso senza penitenti e che, come anche nell’ultimo film di Ken Loach, la famiglia sia la prima a pagarne il prezzo.