The Institute of Things to Come, progetto curato da Valerio Del Baglivo, presenta alla Fondazione Sandretto di Torino fino al 25 di luglio, le installazioni Fake Paradise di Melanie Bonajo e Blutbad Parade di Pauline Curnier Jardin. Secondo il testo curatoriale, «le due artiste indagano momenti di espressione corporea collettiva e sperimentazione collaborativa, in cui re-iscrivere discorsi egemonici e normativi sui temi dell’identità, del genere e della sessualità. In particolare intrecciando interessi nelle tradizioni radicali e nei rituali ancestrali, esplorando il potenziale dei media e della tecnologia, e realizzando sperimentazioni collaborative, le loro pratiche esplorano differenti forme espanse di narrazioni, spesso risultanti in complessi progetti installativi dal forte impatto visivo».
Il breve saggio si concentra sul lavoro di Bonajo descritto come «parte della sua serie di film semi-documentari Night Soil, dedicata ai fenomeni culturali che mettono in questione il sistema dei valori del capitalismo. L’opera considera le dimensioni spirituali, medicinali e sociali dell’ayahuasca, una pianta amazzonica con proprietà psichedeliche. Navigando tra storie personali di esperienza e prospettive indotte dall’uso dell’ayahuasca, l’installazione video presta attenzione alle voci femminili, tradizionalmente trascurate nella ricerca e nella cultura psichedelica».
Il lavoro, presentato a Manifesta12 come allora risulta irritante. Mentre a Palermo l’allestimento prevedeva un setting composto da sedie sdraio blu attorniate da piante verdi, quello alla Fondazione Sandretto rende difficile l’ascolto, vista la sovrapposizione dei suoni tra i video delle due artiste. Forse, se si fa riferimento al tenore del contenuto audio, è una fortuna.
La didascalia afferma che «Bonajo esplora il vuoto spirituale della sua generazione, esamina il rapporto mutevole delle persone con la natura e cerca di porre domande esistenziali riflettendo sui concetti di casa, genere e percezione del valore nella società contemporanea. Fake Paradise esamina l’effetto curativo della pianta allucinatoria ayahuasca sulla mente dell’essere umano moderno. I protagonisti dei suoi video sono alla ricerca di nuovi rituali, di un diverso rapporto con la natura e di una rivalutazione delle idee sul genere con l’obiettivo di combattere un preoccupante senso di vuoto».
Se c’è qualcosa di allucinatorio è la mancanza stessa di solidità concettuale del testo. The Institute of Things to Come è «un programma tematico che utilizza argomenti speculativi per proporre immaginari alternativi e posizioni di critica sociale»: il focus del 2021 sono le politiche identitarie che favoriscano letture non-binarie applicate a genere, etnia e orientamento sessuale.
Termini come decolonization of knowledge, art and institutions (decolonizzazione della conoscenza, arte e istituzioni) sono ormai dovuti all’interno del discorso dell’arte contemporaneo. Allo stesso modo, il concetto di cura. Si ha l’impressione che spesso quest’ultimo venga annesso, e distorto, in funzione di interessi di supposta apertura (come il multiculturalism e/o politically correct).
Nana Ayim, scrittrice e storica dell’arte ghanese, si riferisce alla cura come a un processo doloroso che contempla un trattamento olistico del trauma della memoria ancestrale che corpi neri e indigeni caricano con sé, agendo come un’ancora spirituale in terra. Artisti e curatori bianchi sembrano trasformarlo in un grottesco e offensivo processo di cura del loro senso di colpa e/o incapacità di gestire la propria white fragility.
Felwine Sarr ricorda come il sistema epistemico africano preveda dei lunghi rituali di iniziazione per poter accedere alla conoscenza. La stessa cosa accade nella epistemologia indigena. Chiunque abbia letto A queda do céu di David Kopenawa non può dimenticare le descrizioni dei dolorosi processi di iniziazione per giungere ai primi incontri con gli xapiri.
Invece, a vederla mentre si contorce in una pole dance con una pianta, sotto lo sguardo incredulo pure di una capra, l’artista sembra confondere l’ayahuasca con l’Mda. L’uomo bianco disteso nella foresta con il suo cappello Viking rimanda alle immagini di alcuni mesi fa al Campidoglio di Washington DC. Appunto, quante persone non bianche sarebbero arrivate dove Viky è arrivato, vive? L’uso delle pitture facciali è a sua volta complicato, se non fosse che l’effetto Led, piuttosto ridicolo, cancella completamente l’analisi della dimensione spirituale della medicina per lasciar spazio a un after rave party.
L’idea di una «cultura psichedelica» rimane occidentale, tanto vicino ad Huxley quanto lontana alle cosmologie indigene a cui si dice voler fare riferimento. Esiste una grave distorsione di significati. A conferma di tutto ciò, nel testo in sala si legge: «Il film ci lascia con domande importanti: può l’ayahuasca essere per la civiltà occidentale di oggi, ciò che Lsd era per gli anni ’60?». A chi veramente interessa rispondere a questa «importante domanda»? Ai popoli indigeni che, oltre a subire la perdita dei loro anziani xamã, si trovano deprivati della loro pianta sacra perché venduta a creativi occidentali in cerca della loro esperienza psichedelica? E se vogliamo favorire letture non-binarie applicate a genere, etnia e orientamento sessuale ci sono innumerevoli artisti (etero e non-binari) nati al di sotto dell’equatore e al di fuori dello stretto di Gibilterra, che potrebbero aiutarci a uscire da questo impasse autoreferenziale.
Il problema è che decolonizzare significa, per noi bianchi, fare un passo indietro. Significa cedere la prima fila. Meglio invece creare un’allure di discorsi teorici, di titoli evocativi, lasciando tutto come sta.
L’avvicinamento ai «molti altri» avviene attraverso forme che lasciano allibiti per la loro modalità superficiale, al limite dell’offesa. Che siano buone le intenzioni, sulle quali già Bishop ci aveva ammoniti, oche ci sia inconsapevolezza è inammissibile. Soprattutto in epoca pandemica, dove ogni giorno giungono notizie devastanti sul genocidio dei popoli indigeni amazzonici, dove il movimento Black Lives Matter denuncia il razzismo strutturale delle nostre società. O quando l’ambiente accademico e istituzionale dell’arte ci bombarda di discussioni teoriche sulla decolonizzazione. Siamo lontani dalla funzione disturbante delle arti cui siamo abituati dalle avanguardie in poi. Non esiste nulla di provocatorio, né di potente nelle opere esposte a Torino. Sono semplici espressioni di un banale estrattivismo.
Rimandano al tentativo di Abramovic di avvicinarsi alla spiritualità in Brasile nel suo The Space in Between. Marina Abramovic and Brazil vissuto come «un pellegrinaggio alla ricerca di nuovi stimoli creativi». Un Brasile che continua a essere osservato attraverso una distopica Z. Lavori come questi pongono delle necessarie domande sulla superficialità degli impegni e delle riflessioni del dibattito intellettuale decoloniale europeo al quale la scrivente – in quanto europea anche se localizzata extra-Ue – partecipa da tempo.
Nel 2015, alla 56esima Biennale di Venezia, la prima con alla guida un curatore nero africano, Okwui Enwezor, presentava un’opera di un artista in cui si leggeva: This is definitely not the season to stay silent. Se la necessità continua a essere la medesima, è definitivamente il momento di riflettere – dal punto di vista intellettuale e emozionale – molto più profondamente su quello che vogliamo dire quando sentiamo l’urgenza di non stare zitti.