Imad è un torrente in piena, travolge gli argini. «Gerusalemme è la capitale della Palestina, lo sarà sempre. Donald Trump può annunciare ciò che vuole e Israele può attuare tutte le sue politiche ma noi non rinunceremo mai e poi mai a Gerusalemme». È perentorio Imad, proprietario di una libreria. «E i Paesi arabi e islamici? – domanda – Nessuna reazione vera, solo qualche frase scontata» si lamenta «Giordania ed Egitto hanno relazioni con Israele, almeno loro avrebbero dovuto ritirare gli ambasciatori e chiudere le ambasciate, invece restano a guardare». Intorno a noi c’è il silenzio di via Salah Edin, l’arteria commerciale di Gerusalemme Est, la zona araba della città, dove i negozianti hanno aderito in massa allo sciopero generale proclamato dopo il discorso con cui il presidente americano martedì ha riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele. «Adesso i leader occidentali prendono le distanze da Trump, ma vedrete che faranno marcia indietro e rimarranno alleati di Israele anche se nega i nostri diritti. Che possibilità ci lascia il mondo?». Imad termina la sua sfuriata lasciandoci tra le mani questo pesante interrogativo.

Già, cosa resta da fare ai palestinesi che hanno perduto tutto e ai quali un uomo che per quasi tutta la vita si è occupato di hotel, casinò, campi da golf e gustato cocktail a party di stile berlusconiano, ora nega anche solo una parte di Gerusalemme. Il fatto che Trump nel riconoscere Gerusalemme capitale di Israele non abbia pronunciato le parole magiche “capitale unita e indivisivile” che piacciono al premier Benyamin Netanyahu, non lascia un vero margine ad una trattativa futura sullo status della città. Israele per decenni ha ripetuto che non restituirà la parte araba di Gerusalemme che ha occupato nel 1967 e ora che ha in tasca il riconoscimento di Trump perché dovrebbe dirsi pronto al compromesso politico. Non sorprende che ieri il premier israeliano si sia mostrato sicuro del fatto suo quando ha detto, durante un incontro al ministero degli esteri, che lo Stato ebraico è in contatto con altri Paesi pronti, a suo dire, a seguire Washington. Fra questi, secondo il quotidiano Haaretz, ci sarebbero le Filippine. Ma Israele punta più in alto, alla Russia che nei mesi scorsi ha fatto un mezzo riconoscimento della parte ebraica, ovest, di Gerusalemme come capitale di Israele.

Cosa fare? Molti palestinesi l’hanno deciso ieri quando si sono riversati nelle strade di Gerusalemme, di Cisgiordania e Gaza per manifestare contro Israele e gli Usa. «Trump Trump you will see, Palestine will be free», (Trump vedrai, la Palestina sarà libera), scandivano decine di donne che si sono unite a centinaia di palestinesi radunati alla Porta di Damasco, l’ingresso principale della città vecchia, per gridare la loro rabbia. Alla periferia di Gerusalemme Est, Shuffat, Ramallah, Betlemme, Tulkarem e nella isolata Qalqilya, completamente circondata dal Muro israeliano, le manifestazioni sono sfociate in scontri con i soldati. Colonne di fumo nero si sono alzate dalle strade e l’odore acre dei pneumatici dati alle fiamme da giovani dimostranti ha inondato le città palestinesi come non accedeva da tempo. Alto il bilancio dei feriti, 114 secondo la Mezzaluna Rossa. E non è meno rilevante lo sciopero generale rispettato ovunque ieri nei Territori occupati. Oggi saranno trent’anni dall’inizio della prima Intifada (8 dicembre 1987), la rivolta popolare contro l’occupazione israeliana che riportò sui tavoli delle diplomazie internazionali la questione palestinese e che terminò nel 1993 con gli Accordi di Oslo tra Israele e Olp. Un appello per una terza Intifada è stato lanciato ieri dal leader di Hamas, Ismail Haniyeh, che ne ha già coniato il nome, “Intifada per la liberazione di Gerusalemme”. L’appello di Hamas sarà raccolto? Le previsioni non sono unanimi. Tuttavia gli scontri di ieri tra palestinesi e soldati israeliani sono un segnale preciso e potrebbero innescare un effetto domino. Israele ha aumentato le sue forze militari e di polizia in Cisgiordania e a Gerusalemme Est e nella notte di mercoledì ha detenuto 36 palestinesi in Cisgiordania, a Nablus, Hebron, Betlemme, Ramallah, Salfit e Jenin.

Non si può non notare il fiuto politico del leader di Hamas. Mentre il presidente dell’Anp Abu Mazen è andava da re Abdallah di Giordania per consultazioni sui passi da fare dopo la dichiarazione di Trump, Haniyeh si è rivolto a tutti i palestinesi. Per mobilitarli e per sottolineare che mentre Hamas incita a lottare, Abu Mazen continua a ricercare sostegni improbabili e il coordinamento con leader arabi legati a doppio filo agli Stati Uniti. La Giordania da parte sua è unito a Israele da un accordo sulla sicurezza. Collaborazione di sicurezza con Israele che l’Anp non cessa nonostante le politiche portare avanti del governo Netanyahu. Non un analista politico ma un semplice dentista di Gerusalemme est, George Harb, ieri ci spiegava con estrema chiarezza vorrebbero i palestinesi dall’Anp di Abu Mazen dopo l’annuncio di Donald Trump. «Vogliamo che Abu Mazen smetta di incontrare gli inviati americani e interrompa definitivamente i contatti con Israele e Stati Uniti perché sono inutili e dannosi. E – ha concluso – che si unisca alle altre organizzazioni palestinesi per decidere insieme la strada che porterà la libertà al nostro popolo».
Ieri sera l’aviazione israeliana ha bombardato Gaza – pare senza fare vittime – dopo il lancio di due razzi, o forse colpi di mortaio, dalla Striscia verso il territorio meridionale dello Stato ebraico.