Inizia questa settimana la raccolta delle olive, un appuntamento annuale di grande significato culturale e sociale, oltre che economico, per la società palestinese.

Su di essa si sentiranno forti i riflessi della pandemia che già colpiscono in modo catastrofico da mesi l’economia dei territori palestinesi e che si aggiungono alle abituali restrizioni di Israele sulla circolazione delle persone e all’accesso agli uliveti.

SENZA DIMENTICARE le scorribande, denunciate dai palestinesi, che potrebbero compiere estremisti israeliani per tenere lontani i palestinesi dai terreni vicini alle colonie, soprattutto nella zona di Nablus. Spesso gli agricoltori palestinesi devono stabilire un «coordinamento preventivo» con le autorità militari israeliane e ottenere un permesso prima di andare negli uliveti.

E quest’anno, a causa del Covid, non parteciperanno alla raccolta le centinaia di volontari stranieri, tra cui numerosi italiani, che in questa stagione raggiungono la Cisgiordania per dare una mano nella raccolta e offrire, con la loro presenza, protezione passiva ai palestinesi.

«Se gli ulivi conoscessero le mani che li hanno piantati, il loro olio diventerebbe lacrime», ha detto una volta il poeta palestinese Mahmoud Darwish. L’identificazione tra l’olivo e il popolo palestinese (e la sua condizione) non è solo un riflesso dell’importanza di questo albero generoso, è anche una forma di resilienza all’occupazione. È l’incarnazione della nazionalità palestinese.

L’OLIVO È PARTE integrante del paesaggio da migliaia di anni. Alcuni degli ulivi della Cisgiordania sono tra più antichi al mondo. Sotto di essi le famiglie si riuniscono durante le pause della raccolta per raccontare ai più piccoli storie antiche e le vicende di nonni e bisnonni che hanno piantato alberi che ancora oggi danno da vivere a tante persone.

L’agricoltura non è più centrale come un tempo nell’economia palestinese. Ma le olive e l’olio d’oliva (e i derivati come il sapone) restano un capitolo centrale per la vita di migliaia di famiglie nel nord e nord-ovest della Cisgiordania.

Più di 10 milioni di ulivi su circa 86mila ettari, rappresentano il 47% della superficie totale coltivata. Tra 80mila e 100mila famiglie fondano il loro reddito su questo settore che genera tra 160 e 200 milioni di dollari nelle annate buone.

Quest’anno, si prevede, altre migliaia di lavoratrici e lavoratori si aggiungeranno alla raccolta delle olive. Il 43% dei palestinesi, secondo dati recenti, hanno perso il lavoro o lo hanno visto diventare sempre più precario a causa delle restrizioni imposte dalla lotta al Covid. Le difficoltà per molti si trasformano in disperazione.

Negli ultimi sette mesi sono stati messi in circolazione in Cisgiordania e Gaza oltre 100mila assegni a vuoto, per un valore di 130 milioni di dollari. Chi li ha emessi nella maggior parte dei casi ha fatto acquisti di beni primari, a cominciare dal cibo, sperando di coprire in tempo l’assegno.

Betlemme e gli altri centri abitati che vivono di turismo locale e internazionale hanno perduto 150 milioni di dollari al mese durante la pandemia.

QUESTO DISASTRO economico è aggravato dalla crisi finanziaria dell’Anp – da cinque mesi oltre 100mila dipendenti pubblici ricevono solo metà stipendio -, frutto anche dello scontro in atto tra palestinesi e governo israeliano. Si aggiunge alla tensione politica generata dalla normalizzazione dei rapporti tra alcuni paesi arabi e Israele a discapito dei diritti palestinesi.

Non c’è dubbio, come ha detto due giorni fa il premier dell’Anp Shtayyeh, che per i palestinesi «il prossimo inverno sarà molto difficile». Non solo per la pandemia.