Mi è testimone Mario Boccia, a cui lo dissi in una lunga telefonata fra un viaggio in Bosnia e un altro – in quel decennio in cui la nostra vita era un continuo andare avanti e indietro dall’Italia alla guerra, io per l’impegno con il Consorzio Italiano di Solidarietà che seguivo per l’Arci, lui per il lavoro di documentazione che rimane una delle testimonianze più intense del primo conflitto sul suolo europeo dopo la fine del nazi-fascismo.

Non pensavo fossero vere, le notizie sul massacro che cominciavano a filtrare, dopo l’11 luglio del 1995, venticinque anni fa. Pensavo fosse guerra di propaganda, una dimensione del conflitto da sempre importante della guerra nella ex-Yugoslavia e soprattutto in Bosnia-Herzegovina, che era da anni territorio quasi sigillato, con le comunicazioni interrotte e dove arrivare, soprattutto nelle enclaves assediate, non era facile e qualche volta impossibile.

Non ci credevo, che più di ottomila persone fossero state, a freddo e tutte insieme, massacrate. Non sotto le bombe, non in combattimento – ma messe in fila e uccise, una dopo l’altra, tutti i maschi di tutte le età, dopo essere stati separati dalle donne. Come nei peggiori eccidi dei nazisti. Eppure stavo lì due settimane al mese da anni, avevamo i permessi per muoverci anche nelle zone più difficili, arrivavamo in mezzo alla guerra vera e ne avevamo viste di tutti i colori in Bosnia.

Avevo visto la gente di Mostar con una pelle grigia che mai ho più visto in un essere umano venirci incontro nel primo convoglio a Mostar assediata da mesi, senza cibo e senza acqua, tre giorni prima che il ponte vecchio fosse fatto saltare. I bombardamenti e i cecchini a Sarajevo, i morti e la paura. Avevo incontrato gli occhi grandi e vuoti degli scampati alle tortura dei campi di concentramento, che l’Onu ci chiedeva di far uscire illegalmente dal paese per salvare loro la vita.

Avevo visto una delle diverse ondate dei profughi di Srebrenica arrivare a Tuzla, con il palazzetto dello sport, dove venivano accolti, che diffondeva una unica luce bluastra nella notte totale del coprifuoco perpetuo. E poi, ho l’Olocausto e la persecuzione nel codice genetico. E sapevo già che l’essere umano è l’animale più crudele del pianeta. Ma la mia testa non riusciva proprio ad accettare un eccidio così grande, ottomila persone uccise tutte insieme senza neppure alcuna atroce giustificazione bellica ma solo per puro odio etnico – non nei libri di storia ma lì, sotto i nostri occhi e dentro al tempo e allo spazio che abitavamo. E con la complicità dei Caschi Blu dell’Onu. Era troppo, non poteva essere vero.

Eppure, quando penso alla mia vita politica, tendo sempre ad assolvermi: in fondo, scelte sbagliate rispetto alle cose del mondo non ne ho fatte molte. E’ merito sicuramente dell’ambiente che mi ha dato l’imprinting – ragazzina del Manifesto, del Pdup, del ripudio dei blocchi contrapposti, né con l’imperialismo occidentale né con il socialismo reale dell’Est e dei movimenti che a quell’approccio sono seguiti.

È stata proprio Luciana Castellina a dirmi di raccontare questa storia. Ho resistito, poi ho pensato che c’è un pezzo grande della storia della sinistra italiana, realizzata nel pensiero e nelle pratiche sociali, che rischia di andare dispersa. E allora ne scrivo, anche se quello che ho da dire è solo la confessione di un grande sbaglio. Che fa male ad ogni anniversario.

Ci ho messo del tempo ad accettare la realtà, mentre continuavamo l’impegno pacifista nei Balcani, fino al Kosovo e oltre. Forse, a giustificarmi, posso dire che vivevamo un’epoca diversa, in cui l’ottimismo era ancora concesso, in cui ancora non avevamo visto l’ignavia anche a sinistra verso il martirio della Siria, né tante persone perbene augurare ai migranti di continuare ad affogare in mare, o la marcia trionfale verso l’ecocidio del pianeta.

Oggi non dico mai “restiamo umani”, slogan che pure tanto sta facendo di buono in questi tempi duri. E’ proprio perché siamo umani, che siamo capaci di un orrore indicibile: e dobbiamo invece, con fatica e con forza, cercare di essere giusti.