Il nuovo film di Sion Sono era uno dei titoli attesi di Orizzonti. Attivo dall’inizio degli anni ottanta, Sion Sono è un cineasta a parte nel panorama giapponese di oggi, il suo eclettismo lo rende inassimilabile sia al gruppo di quelli noti in Europa come Takeshi Mike, Naomi Kawase e Takeshi Kitano sia a quello di autori più radicali e meno distribuiti come Shinji Aoyama. Ha avuto problemi a produrre alcuni suoi film, ma, per sua stessa ammissione, non si è fatto bloccare da un ideale di purezza e se la cava meglio di tanti altri. In effetti, è uno dei cineasti giapponesi più prolifici, uno più presenti nei festival del mondo intero.

Nel 2011 aveva portato alla Quinzaine des Réalisateurs un noir erotico, Guilty of romance. Solo qualche mese dopo aveva stupito tutti qui a Venezia con Himizu, apertamente ispirato dagli eventi catastrofici dello Tsunami e del disastro nucleare che ne è conseguito. Nel 2012 era già pronto The Land of Hope nel quale Sono Sion avanzava senza tentennare nella direzione di un cinema impegnato, legato all’attualità, serio, imboccata col precedente. La linea di un nuovo Sion sembrava tracciata e in quell’occasione il regista aveva dichiarato che dopo Fukuyama il cinema non poteva occuparsi d’altro.
Apparentemente, può. Con Why Don’t You Play in Hell? Sion Sono gira, con minimi aggiornamenti, una sceneggiatura che, a quanto afferma lui stesso, era pronta, in un cassetto, da vent’anni. Il nuovissimo Sion ritorna al giovane, vale a dire al vecchio, ovvero così come lo conoscevamo prima che lo Tsunami lo convertisse alla politica: spudorato, eccessivo, talmente ironico da non posare mai i piedi per terra. Detto altrimenti, e in perfetta dialettica col film di apertura della Mostra: senza alcuna gravità. Come nei primi film, anche il soggetto di quest’ultimo è autobiografico. Il protagonista della storia è un aspirante regista bruciato dal fuoco sacro del cinema. Si tratta in realtà di un anti-ritratto: contrariamente a SS, l’eroe di Why Don’t You Play in Hell? rifiuta di compromettersi con il cinema commerciale, passa dieci anni a pregare il Dio del cinema di concedergli una chance di girare un film, uno solo, ma epico.

Che l’occasione arrivi grazie ad un assurdo regolamento di conti tra due bande della Yakuza dà il colore della vicenda: rosso sangue. Prima che il film nel film venga infine girato, verranno mozzati centinaia di arti e si spanderanno altrettanti ettolitri di vernice scarlatta. Ma il tono non è quello del noir, perfino il sangue ha i riflessi sgargianti e caramellati delle commedie sentimentali per la televisione. La sequenza di apertura è una finta pubblicità anni 80, nella quale una bambina saltella intonando uno ritornello le cui strofe terminano con due espressioni straniere, pronunciate con accento nipponico: Let’s go, Let’s fly. Le due ore che seguono non fanno che inseguire questa scena madre, quasi che il ridicolo e l’infantile fossero una bandiera dietro cui stringersi a coorte, e un vecchio slogan in inglese un inno da cui tutti i protagonisti si lasciano colonizzare e che ripetono invasati.

Durante l’incontro con la stampa, un Sion Sono mai così sobrio nell’aspetto, si è presentato davanti ai giornalisti (pochi) dichiarando con fare sornione che ormai la tragedia di Fukushima è passata e che il paese ha bisogno di intrattenimento. Dice sul serio? Nessuno ha osato contraddirlo. La domanda seguente sembrava inchiodarlo a qualcosa di incontrovertibile. Il film cita, tra gli altri, Tarantino, che ne pensa di questo regista? Imperturbabile, SS non ha esitato a schivare. Non ne pensa nulla, non ci ha pensato, lo ha scritto molti anni prima di Kill Bill. In questa seconda bugia c’è la verità (e la bellezza) del suo film.

È vero che Tarantino è lì, evocato nelle immagini e ancor più nelle musiche, insieme a molti altri cineasti, giapponesi ed europei. Ma, con lo spirito del cinema di cui Tarantino è espressione, Sion Sono non ha molto a che vedere, le sue non sono citazioni, parola pomposa che nasconde sempre qualche gerarchia, non poca nostalgia e un rapporto con la memoria della storia del cinema che Why Don’t You Play in Hell?, nei suoi momenti migliori, s’ingegna ad irridere senza pietà, al di là del sacro, ma anche del dissacrare. Alla Mostra, e in Italia, dove il passato è benedetto in blocco e in dvd ed ai cineasti ci si rivolge con l’appellativo fantozziano di Maestri, un film come questo è veramente benvenuto. Why Don’t You Play in Hell? è un modo, non già di riflettere, quanto di sperimentare cosa può fare il cinema oggi: cadere, scivolando o irrompendo, da un’inquadratura ad un’altra, da una citazione distorta ad una mai vista, senza toccare terra. Vasto programma.