«Perché una montagna possa assumere il ruolo di Monte Analogo, è necessario che la sua cima sia inaccessibiloe, ma la sua base accessibile agli esseri umani quali la natura li ha fatti. Deve essere unica e deve esistere geograficamente. La porta dell’invisibile dev’essere visibile». Scriveva così nella sua esplorazione fantastica René Daumal, poco prima di morire – era il 1944 -, in quel romanzo rimasto incompiuto (Il Monte Analogo, Adelphi per l’Italia) in cui il lettore segue le avventure di un gruppo di alpinisti-filosofi che s’ingegnano nella ricerca di possibili pratiche di ascensione. Non sapremo mai come andò veramente a finire, ma possiamo invece seguire una mappa che dai territori immaginari dello scrittore francese agganci approdi in luoghi di densa realtà.

L’ANOMALIA GEOGRAFICA
A capire meglio lo spirito con cui Daumal animò le sue pagin, ci aiuta un’altra vetta inaccessibile, sacra come poche al mondo: è il monte Ararat, oggi in Turchia, nella cui cima perennemente innevata la leggenda narra si nascondano i resti dell’Arca di Noè, protetta da strati di ghiaccio millennari. Lì, a una manciata di chilometri da Yerevan, nella valle dove volano alte le cicogne e si dice che Noé stesso avesse lasciato germogliare il suo giardino fiorito, lì dove sorge il monastero intorno al pozzo nel quale fu imprigionato per 13 anni il fondatore e santo patrono della Chiesa apostolica armena, Gregorio Illuminatore, gli abitanti di Yerevan possono gettare come una rete il loro sguardo lontano, ma non è dato loro di attraversare il confine di quella terra che un tempo era loro. L’Ararat buca il cielo con i suoi 5137 metri di altezza, ma è quasi una fortezza, sorvegliata dai militari turchi disseminati in verdi torrette. La frontiera scorre con le acque del fiume Aras: al di qua pescano gli armeni, sull’altra sponda ci sono i turchi. E l’Ararat, simbolo dell’Armenia fin dall’antichità, non è più raggiungibile per quello stesso popolo stretto per secoli tra dominazioni diverse, dopo aver vissuto ciclicamente massacri, distruzioni, spostamenti di confini, negazioni identitarie e, infine, aver sperimentato miracolose e cicliche rinascite.
PARADISI TERRESTRI
È per questo che una Triennale d’arte contemporanea intitolata The Mount Analogue non poteva che prendere vita in Armenia, ripercorrendo una topografia culturale complessa, a ritroso, spingendo gli stessi artisti invitati a viaggiare per il paese, alla ricerca di una propria «iniziazione».
In realtà, la mostra curata da Adelina Cüberyan von Fürstenberg, appena inauguratasi fra Yerevan e Gyumri (la prima parte visitabile fino al 30 settembre, la seconda aprirà il 14 settembre e chiuderà l’anno 2017) è, più che una collettiva che mette insieme disparate sensibilità creative, una «esperienza di condivisione».

Un’esperienza che affonda le sue radici nella biografia stessa della curatrice (di origini armene pur se nata a Istanbul e cresciuta in Europa) e nell’incontro con un libro che prende su di sé le funzioni favolistiche di un tappeto magico, come il romanzo di René Daumal. Già alla guida del padiglione armeno alla Biennale veneziana del 2015, vincitore del Leone d’oro, Adelina Cüberyan von Fürstenberg è convinta che l’Ararat sia, come il Monte Analogo, «un sacro paradiso terrestre che s’intreccia con la storia contemporanea». A svelarle l’esistenza di Daumal fu un personaggio eccentrico come Meret Oppenheim: la andò a trovare a 16 anni e la colse immersa nella lettura di quel libro misteriosissimo. E dopo ci fu il Monte Verità e un utopista come Harald Szeemann.
POLVERI D’ALFABETO
Per la mostra, ci sono voluti i sopralluoghi di ottobre e aprile, gli approfondimenti storici sul paese e, una volta catturato con il proprio corpo il magnetismo sprigionato dalle pietre armene (basalto, ossidiana, tufo rosso e nero), gli artisti hanno realizzato installazioni site specific, interrogandosi sulla conoscenza. Ognuno, naturalmente, l’ha fatto a modo suo, spesso discutendo per intere serate in piccole comunità nel giardino fiorito della residenza Villa Kars di Gyumri, la seconda città dell’Armenia che conserva ancora il suo antico fascino architettonico, nonostante le devastazioni subìte con il terremoto del 1988.
Gyumri non è una location casuale per la Triennale: nacque qui il filosofo e mistico Georges Ivanovitch Gurdjieff, procacciatore di conoscenze esoteriche e danze spirituali che ebbe come allievo anche l’inquieto René Daumal. È qui, dunque, nella vecchia Alexandropolis un po’ sciamanica che gli artisti hanno scelto i set per le loro opere (al Museum of National Architecture and Urban Life, al Sergey Merkurov Museum e alla galleria di Mariam and Eranuhi Aslamazyan Sisters).
Giuseppe Caccavale (Napoli, 1960, vive tra Parigi e Bari) si è affidato alle intuizioni di Osip Mandel’stam e al suo poema dedicato all’Armenia, lavorando con i ragazzi del posto, incidendo sui muri versi estatici. «Ho conosciuto Mandel’stam attraverso Paul Celan, nel 1990. È subito diventato il mio Duchamp: avevo un gran bisogno di alfabetizzare i miei occhi. E proprio in Viaggio in Armenia Mandel’stam annunciava che gli occhi sono lo strumento del pensiero… Ho ritrovato il suo libro inciso con forza nella speziata geografia armena. Le sue parole sono precisissime, prendono per mano lo sguardo esterno e lo porgono a quello interno. È tutto un soprassalto di meraviglia acustica: camminando, suona tutto attraverso quella lingua fatta di lettere in forma di uncini e tenaglie. Ho gustato il migliore piatto della cucina armena: la polvere del suo alfabeto».

TOPOGRAFIE INTERIORI
Riccardo Arena (Milano, 1979) invece ha seguito il suo stupore e si è impadronito del meccanismo narrativo del Monte Analogo, percorrendo strade interiori e strade «esterne», da scavare nel passato insieme agli archeologi. Ha fiutato tracce, orografie, reperti e ha costellato il suo cammino di radiografie che scandagliassero le viscere del monte, l’interno del suo picco, offrendo una sorta di laboratorio da cui partire per le esplorazioni di territori ignoti, indagati soprattutto attraverso la potenza delle loro rocce (ossidiana).
Mikayel Ohanjanyan (nato a Yerevan nel 1976, vive a Firenze) ha proceduto a ritroso, reimmergendosi nelle leggende fondative del suo paese – un assaggio della complessità di quella tradizione orale e scritta l’avevamo avuta in Biennale nel 2015 con il fiabesco Rotolo armeno di Gianikian Ricchi-Lucci, splendido archivio di storie perdute e ritrovate. In The Door of Mher, Ohanjanyan ha rispolverato l’epos di un eroe tragico, maledetto dal suo stesso padre, rinchiuso in una cavità vicino al lago di Van, da cui si narra uscisse due volte l’anno per tastare la salute del mondo. Ogni volta, però, tornava sdegnosamente nel suo eremo: non era ancora tempo per gesta memorabili. L’artista ha deciso di invitare questo laico messia a uscire dalla tana: lo ha fatto tagliando a metà grandi pietre e graffitando al loro interno una lettera accorata, che per gli altri (i non eletti) resta visibile solo in minima parte. Un cavo d’acciaio tiene in tensione le parti del basalto scolpite

Marta Dell’Angelo (Pavia, 1970) ha scartato la terra e ha guardato all’insù, verso il cielo, puntando direttamente al campo base della scalata del Monte Analogo. Per raggiungere la vetta, bisogna partire da lì e, simbolicamente, è necessaria una staffetta umana. Nulla può essere lasciato incustodito. I suoi «pezzi», che compongono un collage ad alto impatto visivo, sono frammenti raccolti in un itinerario che ha messo in gioco emozioni, letture, sensazioni di viaggio, conoscenza delle tradizioni di civiltà antiche. In collaborazione con Aleksey Manukyan, Dell’Angelo ha dato anche vita alla performance One Whistle 100 Dram, dove proponeva al pubblico fischietti fatti con semi di albicocche (frutto nazionale) e ghiande italiane. Infne, ha scalato la cima del monte Aragats, la più alta d’Armenia, vivendo l’esperienza in coppia e praticando il rito del monosandalismo (un calzare al piede e l’altro nudo) tra nevi e impervie salite, procedendo zoppicante verso l’«iniziazione» ultima.
Il melting pot architettonico, storico e spirituale dell’Armenia è invece il filo rosso che lega i disegni dell’artista israeliano Benji Boyagian. Viaggiando, ha setacciato dentro di sé le concrezioni, i «resti» del paesaggio e li ha restituiti con tratti lievi, in schizzi a inchiostro, lasciando che il contesto sparisse. Galleggiano nell’aria, eterei, chiese, ponti, palazzi sovietici, rovine, acquedotti romani, indicando una rete di assonanze che, frammento dopo frammento, compongono una idea di mondo.
SCHEDA