In attesa di The Homesman di Tommy Lee Jones, tocca a The Salvation del danese Kristian Levring reinventare la conquista del West. Messo in scena attraverso un’ottica che omaggia la grande stagione modernista dei Peckinpah, Penn, Peter Fonda e così via, il film è un progetto coltivato con evidente devozione e scrupolo filologico, attento ai dettagli ambientali e a un iperrealismo cromatico (ottenuto digitalmente) che si tiene saldamente in piedi come la più classica delle parabole di vendetta.

Rispetto ai racconti dello straniero senza nome che si presenta dal nulla per raddrizzare i torti di una comunità che fatica a nascere, The Salvation vanta un eroe che provenendo dall’Europa carico di storia, dopo aver combattuto guerre non sue, tenta di rifarsi una nuova vita in un mondo nuovo. Jon (Mads Mikkelsen, ormai habituè della Croisette) si presenta nel Far West carico di storia, di quella maiuscola, ed è questo contrasto a rovesciare lo stereotipo dello straniero laconico del quale s’ignora tutto se non la sua abilità con le colt.

Il percorso di formazione che Kristian Levring riserva al suo protagonista procede al contrario. Soldato con una preparazione militare che fa di lui un tiratore micidiale, si ritrova progressivamente spogliato della sua identità in un calvario di violenze e soprusi che lo riducono a una macchina di morte offerta come la più arcaica delle giustizie.

Dovendo vendicare il massacro della moglie e del figlio in una landa arida nelle cui viscere pulsa l’oro nero, Jon tocca con mano l’intreccio fondativo fra espropriazione del territorio e il sogno mancato della nascita di una nazione.

In un paesino dove il sindaco è anche il becchino (Jonathan Pryce) e lo sceriffo è anche il prete (Douglas Henshall), il braccio violento di Delarue (Jeffrey Dean Morgan), amministra una parodia di legge al servizio delle corporazioni che predano la terra e il petrolio scacciando i coloni. Kristian Levring offre una versione nerissima del west. Fango sudore e polvere da sparo, insomma, nonostante l’ocra dell’operatore Jens Schlosser domini i campi lunghi quando non piove.

Composto alternando con sapienza le differenti profondità di campo, eliminando quasi del tutto i primissimi piani, The Salvation è una sorta di teorema narrativo che riesce a bypassare l’aspetto promozionale dell’impresa («un western danese») per offrirsi come commosso omaggio a un genere e alla sua anti-mitologia.

Evitando di eccedere in citazioni di feticismo cinefilo (riservato al tintinnare degli speroni di Delarue, unica concessione leoniana del regista), Levring offre del west, curiosamente, una visione molto prossima al Walhalla del connazionale Winding-Refn.

Territorio spopolato e inospitale, percorso da branchi di tagliagole, nel cui fuoricampo pulsa il genocidio dei nativi americani, l’alba degli Stati Uniti secondo Kristian Levring sembra il suo crepuscolo post-atomico (i resti del villaggio carbonizzato…).

Mettendo in campo una competenza filologica che dalle soglie fordiane dell’incipit passa per visioni eastwoodiane, senza dimenticare accenni grotteschi dal sapore altmaniano, The Salvation si presenta come un’operazione non banale, nonostante alcune insistenze sul digitale inficino alcuni passaggi narrativi.

Efficace, invece, il lavoro sonoro compiuto sugli spari. Secchi, brutali ma metallicamente pieni.

Pur aderendo dunque al canone del western classico riletto in chiave modernista, Levring si riserva un paio di tocchi che avrebbero potuto stare in Pronti a morire di Sam Raimi o nella trilogia messicana di Robert Rodriguez.

Eric Cantona che si complimenta con Jon perché ha combattuto i tedeschi prima di stenderlo con un gancio allo stomaco è irresistibile, mentre Eva Green muta e dalle labbra sfregiate contribuisce al plusvalore fetish del film.