L’utopia è ancora possibile nel XXI secolo? A prima vista, Ilya e Emilia Kabakov, invitati per la sesta edizione di Monumenta sotto la grande cupola del Grand Palais (fino al 22 giugno), rispondono di no. C’è un muro bianco in rovina, prima di entrare nella Strana città, la grande installazione creata dai due artisti di origine russa, entrambi nati a Dnipropetrovsk, nel sud dell’Ucraina e che ora vivono negli Usa, dopo aver iniziato, per quanto riguarda Ilya (80 anni), la carriera artistica a Mosca ai tempi dell’Urss.

La Strana città è circondata da un doppio muro di cinta circolare. All’interno, una geometria regolare, dei muri bianchi e cinque costruzioni, che evocano mondi misteriosi, connessi in un labirinto. Manas (nome tibetano, che evoca una città meravigliosa divisa tra quella «celeste» in alto e «terrestre» in basso), Il Centro dell’energia cosmica (un riferimento alla centralità della scienza ai tempi sovietici), I Portoni (dodici quadri che simbolizzano il passaggio all’aldilà), Il Museo vuoto (ricostruzione di un museo classico, ma con la musica di Bach al posto dei quadri), Come incontrare un angelo? (una proposta per come incontrarne uno). Un po’ più lontano, due cappelle, la «bianca» e la «scura», dei frammenti di pittura in un grande spazio bianco la prima, con l’impressione che tutto si dissolve nella luce, sei grandi quadri con illuminazione solo dall’alto per la seconda.

All’entrata della Strana città, passaggio obbligato per l’accesso del pubblico, un’enorme cupola di acciaio di 24 tonnellate, che fa eco alla grande vetrata che ricopre il Grand Palais, posata con un’inclinazione a 60 gradi (posizione che evoca quella delle piramidi d’Egitto), da cui emanano fasci di luce cangiante. Un oggetto che può anche essere letto come un riferimento alla conquista dello spazio, a Baikonur e al mito degli ingegneri onnipotenti. La città sembra essere stata abbandonata dai suoi ultimi cittadini, che hanno lasciato tutto per fuggire. Verso dove?

Kabakov, conosciuto per aver rappresentato il crollo dell’Urss attraverso la rappresentazione degli appartamenti comunitari e della loro ineluttabile decadenza, ci parla qui di rovine: dell’Urss e del suo mito della scienza e della conquista della spazio, certamente, ma anche di altri sogni, una sorta di catalogo degli ideali generalmente umani, che hanno portato al disastro. Come il personaggio che sale su un impossibile intreccio di scale nel vuoto, sperando di poter raggiungere un angelo. «Tutti speriamo di incontrare un angelo» dice Emilia Kabakov, è come un desiderio inconscio.

Nei lavori presentati, si sovrappongono riferimenti al costruttivismo russo, al barocco, ai quadri metafisici di De Chirico, all’utopia dell’architettura perfetta di Boullé, in una sequenza che solleva la questione dell’inutilità. Ilya Kabakov non ha mai smesso di dipingere e oggi la pittura torna in primo piano, lasciando i giochi concettuali sullo sfondo.

«Non siamo artisti politici» mette le mani avanti Emilia Kabakov, «lavoriamo con la storia dell’arte, con i sentimenti umani». Anche se non evita di evocare la «tragedia» che sta vivendo ora l’Ucraina divisa. «Alcuni anni fa – spiega – qualcuno ci ha chiesto se l’arte poteva influenzare la politica. Abbiamo risposto di no, non lo credevamo. Abbiamo sempre la stessa opinione, ma durante tutto questo tempo abbiamo lavorato con delle idee, attorno all’immaginario e all’utopia. E crediamo veramente che l’arte, che ha un posto importante nella nostra cultura, possa cambiare il modo di pensare, sognare, agire, riflettere. Può trasformare il nostro modo di vivere. Questa volta abbiamo cercato di costruire qualcosa di più che un’installazione, abbiamo voluto realizzare qualcosa di diverso: erigere la Strana città significa insistere sull’esperienza piuttosto che sulla forma del progetto, e vi chiediamo di rallentare il ritmo delle vostra vita e di fare appello alle emozioni, ai sensi, ai ricordi. Vi invitiamo a venire al Grand Palais per entrare nella Strana città, uno spazio onirico nato dall’immaginario collettivo, a pensare e a riflettere sull’arte, la cultura, la vita quotidiana, il nostro presente e il nostro futuro».

Il curatore della mostra, Jean-Hubert Martin (che è stato l’organizzatore nell’89 di una rassegna ormai diventata storica, Les magiciens de la terre) descrive la Strana città come «una grande narrazione umanista vicina all’epopea, la città utopica in cui siamo invitati ad entrare parla delle aspirazioni dell’uomo, della sua ricerca dell’aldilà, di una metafisica».